di Giulio Tremonti
I generali in comando delle armate fiscali europee davvero rischiano lo stesso destino dei generali francesi che, asserragliati dietro la linea Maginot, ignoravano la rivoluzionaria forza politica del motore a scoppio?
Disegnati per la tassazione del reddito prodotto con i mezzi propri e tipici dell’economia fisica – con le locomotive e con gli aerei, con le navi e gli autocarri, con i “vecchi” main frame computer, etc. – i nostri sistemi fiscali sono oggi davvero in grado di entrare nell’universo di “internet” e qui di tassare il reddito prodotto con gli “intangible assets”? “Intangible”, intangibili anche per il fisco? Per verificarlo, partiamo dal caso “Apple”. Il primo della prossima serie.
Dalle casse di te gettate per protesta fiscale nelle acque del porto di Boston (1776) alle tasse irlandesi oggi contestate dalla Commissione Europea, fiscalità e sovranità sono state per secoli, pur tra rivolte e rivoluzioni, le due facce di una stessa medaglia.
Secoli fa siamo partiti con: “Un re, una legge, un ruolo di imposta”. Oggi questo ordine sequenziale si sta rompendo, come è del tutto evidente nel caso “Apple”, e ciò per tre nuove essenziali ragioni, rispettivamente costituite:
- dal progressivo sviluppo dell’economia immateriale estesa nell’ universo degli “intangibile assets”, fuori dai vecchi e convenzionali recinti dell’economia fisica o materiale;
- dagli effetti “politici” di questo processo, con l’emersione a fronte dei vecchi Stati-nazione delle nuove “Repubbliche digitali”;
- dalla progressiva, pur se tentativa, evoluzione dell’Unione europea come “corpus” politico di un nuovo tipo, con la pretesa di una sua propria capacità e forza fiscale superstatale.
Se pure in forme varie e successive si sta oggi realizzando e prospettando lo scenario che, nella forma dell’incidente del futuro, fu preconizzato e previsto, con l’anticipo di un quarto di secolo, in Tremonti-Vitaletti, “La Fiera delle tasse”, Il Mulino 1991:
“Si è spezzata la catena Stato-territorio-ricchezza. Un tempo bastava allo Stato controllare il territorio per controllare la ricchezza, che nel territorio trovava il suo naturale baricentro, e dunque per esercitare il monopolio politico: battere moneta, garantire giustizia, riscuotere tasse. Ora non è più così: nella repubblica internazionale del denaro, non è più lo Stato a scegliere “come” tassare la ricchezza, ma questa a scegliere “dove” e per quanto essere tassata… Caduta l’illusione che si possa spostare il mercato verso lo Stato, è lo Stato che deve andare sul mercato. Come gli antichi sovrani battevano le campagne, si mettevano sui ponti, sulle porte e nelle fiere, così la tassazione, nell’età del consumismo, va spostata sul territorio dalle persone alle cose”.
Informazioni più aggiornate e più tecniche sul tema si trovano oggi in Cipollina, “Profili evolutivi della CFC legislation: dalle origini all’economia digitale”, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 2015, 357 ss.
E’ il principio di una nuova storia: su di un passato abbastanza prossimo si sta infatti innestando una travolgente modernità. Nei seguenti termini:
- la “Società delle nazioni” (1928-1933). Già tra la fine dell’800 ed il principio del ‘900 appaiono le prime società con attività transnazionale. Ma è solo tra le due guerre mondiali che il fenomeno entra in una consistente dimensione economica e perciò politica, con la contesa fiscale internazionale tra il luogo formale dell’incorporazione delle società (“Place of incorporation”) ed il luogo od i luoghi sostanziali della produzione industriale e della distribuzione commerciale (“Real seat”).
Tipico, a quel tempo, il caso dell’industria petrolifera. Dove posizionare il titolo dell’imposizione fiscale? A Londra, sede della società madre, od in Romania, dove c’ erano i pozzi di estrazione?
E’ nella sede politica della “Società delle Nazioni”, ed in specie è con il Rapporto Carroll (1933), che per la prima volta si formalizza il criterio-base del riparto-distribuzione tra gli Stati del potere fiscale. Pragmaticamente, una quota di potere fiscale viene posizionata nel luogo “fisico” della produzione originaria, l’altra nel luogo “giuridico” dell’incorporazione.
Una soluzione che si sviluppa con l’applicazione di un apparato di regole fiscali già allora molto sofisticato. Un mondo in cui già si parlava di “transfer pricing”, di governance societaria, di cartelli internazionali, di forme di incentivo costituito da forme di tassazione ridotta su dividendi, interessi, royalties in uscita, etc.
Al riguardo, si veda lo straordinario e pioneristico volume di: Pugliese, “L’imposizione delle imprese di carattere internazionale. Società, filiali, cartelli, trusts, holding, ed investment trusts”, in Collana dell’Istituto di Finanza di Pavia, Padova, 1930.
Nell’insieme questo apparato funzionava relativamente bene per due ragioni essenziali:- perché l’economia era ancora prevalentemente fisica e materiale e perciò visibile e perciò facilmente controllabile;
- perché gli scambi internazionali erano ancora limitati nella quantità e sviluppati tra economie relativamente chiuse ed all’interno di reti di rapporti bilaterali tra Stati;
- Kennedy (1961). E’ solo dopo la seconda guerra mondiale che gli USA staccano il dividendo della vittoria. Ne è parte la travolgente espansione nell’emisfero occidentale delle loro “corporation” che, su vasta e via via crescente scala, si manifestano con la estensione e con la proiezione tipica delle “multinazionali”.
E’ in questo contesto che il Presidente Kennedy il 20 aprile 1960 invia al Congresso degli Stati Uniti d’America un “caveat” di politica fiscale.
“Recently, more and more enterprises organized abroad by American firms have arranged their corporate structures – aided by artificial arrangements between parent and subsidiaries regarding intercompany pricing, the transfer of patent licensing rights, the shifting of management fees, and similar practices which maximize the accumulation of profits in the tax haven – so as to exploit the multiplicity of foreign tax systems and international agreements in order to reduce sharply or eliminate completely their tax liabilities both at home and abroad” (Kennedy J.F., Special Message to the Congress on Taxation (April 20, 1961), in http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=8074).
Nella logica del messaggio presidenziale le imposte vanno pagate una volta sola, ma almeno una volta! E naturalmente questa volta deve essere negli USA! Anche perché gli utili prodotti all’estero devono essere rimpatriati non solo per pagare le tasse federali, ma anche per pagare il dividendo agli azionisti (americani)!.
E’ solo in fase successiva che il sistema tende verso un naturale riequilibrio, verso il paradigma di una partita fiscale giocata non da uno solo, ma almeno da due giocatori.
E così che alla vecchia “Società delle Nazioni” subentra l’OCSE, come fabbrica di regole fiscali internazionali, con la progressiva formalizzazione di “standard” diffusi sulla rete di accordi che restavano (restano) bilaterali o binazionali, ma che erano (sono) quasi tutti normalizzati su sempre più avanzati ed equilibrati criteri comuni. Per arrivare, da ultimo, alle CFC (“Controlled foreign Companies”) ed ai BEPS (“Base Erosion and Profit Shifting”);
- “Globalizzazione + Dematerializzazione”.
Questo tipo di “ordine” fiscale, un ordine che appena fino a ieri era (appariva) insieme modernissimo e sufficiente, oggi si sta in realtà rompendo, perché immesso in due nuovi e congiunti campi di forza:
- la globalizzazione che, come dice il nome stesso, si sovrappone all’antico ordine internazionale, questo fatto soprattutto da rapporti lineari bilaterali o binazionali, oggi tutto essendo invece ed insieme circolarmente e furiosamente superato e sovvertito;
- la dematerializzazione che, avendo nella “rete” la sua vera patria, spinge le attività e la ricchezza, certo la parte più strategica ed affluente delle attività e della ricchezza, tanto fuori dai vecchi confini materiali e fisici, quanto fuori dai confini politici degli Stati-nazione.
E’ proprio questa cascata di fenomeni che sovverte (pare fatalmente destinata a sovvertire) l’ordine fiscale finora costituito.
E oggi il caso delle “tasse” irlandesi può essere (è) un significativo punto di osservazione e di sperimentazione: fenomeni così nuovi ed intensi possono essere gestiti con idee e mezzi vecchi e convenzionali o questi non sono più sufficienti? Verifichiamolo qui di seguito;
- Il territorio 4.0. Ovvero, la fine del “territorio”. La mobilità sta divenendo la forma dominante delle attività economiche più avanzate, quelle delle multinazionali di nuova generazione operative nel dominio degli “intangible assets”.
Alla mobilità fisica della migrazione su vasta scala degli esseri umani si sta infatti aggiungendo quella attivata dai motori virtuali, con dinamiche che erodono alla base la sovranità degli Stati, a partire dalla sovranità fiscale.
Si sta in specie rompendo lo schema del “beneficio”, la base politica dell’imposizione sulle società. Le società non votano, perciò non rientrano nello schema fiscale basico del “no taxation without rapresentation”, ma dagli Stati in cui operano ricevono direttamente od indirettamente il beneficio dei pubblici servizi. E per questo devono (dovrebbero) pagare le tasse.
In realtà la nuova libertà nella mobilità, basata insieme sull’ ideologia di libertà nel mercato globale e sulle nuove tecnologie, con la fine del “territorio”, di fatto e/o di diritto dischiude alle nuove multinazionali vastissimi scenari di apolidia e di anomia fiscale.
L’ Europa, per come è ricca e per come è fatta, ne costituisce uno straordinario campo di sperimentazione e di applicazione.
- “Europa: quo vadis?” Al riguardo si può in sintesi notare quanto segue:
- fin dal suo inizio una base essenziale dell’ Unione europea è stata ed è costituita dal principio della libertà di stabilimento.
Un principio che del resto si trova giustificato, anche in termini fiscali, già nella “Ricchezza delle Nazioni” (1776); - un altro principio europeo è stato (è) quello della riserva delle imposte dirette nella piena sovranità nazionale. Solo l’IVA fu armonizzata, ma solo per non ostacolare alla base la formazione del mercato unico;
- è questo assetto che ha creato, proprio all’interno del mercato unico, la progressiva e competitiva moltiplicazione dei differenziali fiscali nazionali, come se le imposte dirette fossero anche loro una “commodity” offerta sul mercato, un ulteriore fattore di competizione mercantile tra gli Stati dell’Unione;
- in questo contesto il caso dell’Irlanda è comunque un caso caratterizzato da assoluto “particularisme”, un caso in cui la (grande) “quantità” del beneficio fiscale che sarebbe stato concesso e goduto, e che ora è contestato, ha fatto (sta facendo) la “qualità” delle reazioni politiche e di pubblica opinione. Queste spinte fino all’ invito alla proposta di boicottaggio dei prodotti;
- formalmente, su “Apple”, la Commissione Europea non ha aperto un caso “fiscale” o di “antitrust”, ma solo un caso commerciale: in Irlanda ed a favore di “Apple” si sarebbe infatti concretizzato un caso di “aiuto di Stato”, illecito perché capace di alterare in forma significativa l’ordine naturale del mercato.
In generale, nel sistema dell’Unione europea è considerato come aiuto di Stato vietato un differenziale fiscale interno, tra un’ area e l’altra di uno stesso Stato (per questo all’ Italia è stata sempre negata la possibilità di ripristinare le vecchie e molto efficienti agevolazioni fiscali un tempo previste a favore delle aree meridionali).
Nel caso dell’Irlanda l’ area del regime di favore fiscale coincide integralmente con la superficie dello Stato. Ma qui, “intra moenia”, sarebbero stati creati ulteriori ed interni differenziali fiscali; - formulata formalmente in termini di recupero “ex tunc”” dell’ aiuto di Stato indebito, la pretesa della Commissione europea si configura sostanzialmente come una forma “legittima” di imposizione fiscale retroattiva;
- e tuttavia è molto probabile che, in sede di giustizia, la relativa controversia sia lunga ed incerta. Anche perché sarà una controversia più di fatto che di diritto, soprattutto concentrata sulle prove. Lo fa presagire l’incertezza già evidente sui numeri in gioco tra le parti;
- la proposta della Commissione Europea di introdurre una base europea comune armonizzata di imposizione societaria è certo interessante. Ma incontra due limiti. La base IVA, pur non del tutto coincidente con quella dell’imposizione diretta, è già armonizzata e pure, ciononostante, già questa prima armonizzazione non ha impedito neppure una parte delle distorsioni contestate. Le aliquote dell’imposizione diretta sono ancora, si ripete, nella sovranità dei singoli Stati;
- gli attori politici in campo sono comunque troppi e diversi: ci sono Stati dell’ Unione che sono (si dicono) realmente interessati all’armonizzazione; ci sono Stati dell’ Unione che all’opposto sono probabilmente interessati alla conservazione dei loro vecchi regimi fiscali (Irlanda, Lussemburgo, Olanda, etc.) e ciascuno di questi Stati è in materia titolare di un proprio autonomo potere di “voto-veto”; c’è la Commissione Europea; ci sono infine gli Stati Uniti d’ America.
Ciò che nell’ insieme porterebbe a considerare più ragionevole l’ipotesi di spostare l’intera questione dell’armonizzazione delle basi imponibili societarie sul più naturale piano dell’OCSE. Questa la scelta più giusta, ma tuttavia anche la più lenta. E tale comunque da includere e da fare giocare gli interessi non solo dell’Europa, ma anche… dell’“anglosfera”!
In ogni caso non è solo che il mondo è più vasto dell’Europa; è che il mondo sta radicalmente cambiando;
- fin dal suo inizio una base essenziale dell’ Unione europea è stata ed è costituita dal principio della libertà di stabilimento.
- le “Repubbliche digitali”. Avanzano in specie nel mondo e via via ci si stanno presentando nuove «Repubbliche», che per loro conto già si modellano ed agiscono come Stati.
E come i vecchi Stati già tracciano le loro nuove strade, sono mosse dai loro nuovi motori, già battono la loro prima moneta, costruiscono le loro nuove comunità sociali, le loro istituzioni, la loro tipologia di consenso e di consumo.
Come è stato nell’arcipelago della Grecia per la democrazia, come è stato tra i colli di Roma per l’impero, così oggi nel nuovo centro del mondo, sulla costa orientale degli USA, davanti all’oceano Pacifico ed all’Asia, stanno emergendo forme nuove della politica.
E “Repubbliche” spesso già più forti economicamente e tecnicamente di molti Stati, e comunque, rispetto agli Stati, sempre più strategiche nella formazione del consenso politico, nei sistemi di intelligence, etc.
Tornando allo specifico del caso qui in oggetto, oggi si dice che Google, Amazon, Facebook, Twitter, Yahoo, Apple, ecc. intenzionalmente violano od eludono le leggi fiscali degli Stati nazionali nel cui territorio operano.
Per contro, dal loro punto di vista, non sono loro che violano le leggi fiscali degli Stati nazionali, ma sono questi che devono cambiarle;
- Passato, presente e futuro della fiscalità nel terzo millennio.
L’ipotesi che qui in principio si è formulata è quella dell’obsolescenza fiscale: il reddito, misurato in termini convenzionali, non è più sufficiente per misurare la ricchezza “moderna”.
Non basta aggiungere od inventare simulazioni o presunzioni legali od altri strumenti similari. E’ il vecchio meccano mentale che non funziona più.
E’ dunque arrivato (sta arrivando) il momento per cominciare a pensare a nuove categorie, a nuovi indicatori. Ad esempio, considerare la quantità degli impulsi trasmessi sulla “rete” o la velocità dei flussi, questi un necessario e più efficiente sostituto, come base imponibile, dei numeri definiti nella forma classica dei bilanci societari.
Si può certo dire che ciò comporta la spinta (e/o il ritorno) a forme di imposizione empiriche e/o reali. E tuttavia, in questo terzo millennio, è proprio questa la “regressione” che pare necessaria per consentire ai sistemi fiscali di sopravvivere nel diverso “ambiente” che si sta formando nel mondo.
Nei millenni passati, l’umanità ha accumulato, in materia fiscale, un impressionante “stock” di esperienze. E certo non è finora mai successo, nella storia, che l’emersione di nuove forme di ricchezza non sia stata seguita dall’emersione di nuove forme di tassazione.
Quella che si è fatta fin qui è solo un’ipotesi. Ma una ipotesi che si pone in una di quelle fasi in cui il vecchio sta finendo ed il nuovo sta cominciando.
“Come gli Stati del nord-Africa e dell’Arabia riscuotevano le loro imposte in forma rozza(non in base a bilancio ma) in base alla quantità fisica di olio esportato (misurato per quantità), così è prevedibile che gli affari celestiali (basati su combinazioni globali di satelliti e gates), o Internet, spingano anche gli Stati occidentali più evoluti verso forme «rozze» di tassazione diretta, basata sulla quantità e/o sulla velocità dei trasferimenti e degli impulsi” (Tremonti, “La fiscalità nel terzo millennio”, in Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze, 1998, 79 ss.).
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