Russiagate: da Comey a Sessions

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Si susseguono rapidamente le audizioni al Senato Usa nel tentativo di accertare un qualche collegamento irregolare tra il cerchio di Donald Trump e i rappresentanti della Russia nei mesi precedenti l’insediamento della nuova Amministrazione. Per ora, nonostante la grande fanfara, gli elementi nuovi che sono emersi non vanno oltre ciò che sapevamo già, cioè che Trump e i suoi consiglieri hanno mostrato un atteggiamento di apertura verso la Russia, e che vedono le indagini sul Russiagate come una messinscena con motivazioni politiche.

Partiamo con l’ex direttore del Fbi James Comey, licenziato un mese fa quando il presidente ha deciso che stava svolgendo un ruolo di primo piano nei tentativi di indebolire l’Amministrazione. I punti salienti della testimonianza di Comey sono stati tre, a nostro avviso: le accuse a Trump di aver mentito sui rapporti interni al Fbi, per giustificare la propria decisione; i profili giuridici della richiesta di Trump di fermare le indagini su Michael Flynn; e la decisione di Comey di far trapelare informazioni alla stampa per facilitare la nomina di un procuratore speciale sulla questione russa.

Sul primo punto, Comey si è mostrato indignato perché Trump lo ha insultato, dichiarando che il direttore aveva perso la fiducia dentro l’Fbi, e che l’agenzia sarebbe stata allo sbando. Presa insieme ai riferimenti fatti all’intervento di Comey contro Hillary Clinton durante la campagna elettorale, questa giustificazione risulta in effetti un alibi piuttosto debole per mascherare la vera motivazione dietro la decisione: contrastare un’indagine - quella sulla Russia - che Trump considera una caccia alle streghe. La Casa Bianca, come abbiamo scritto altre volte, si muove velocemente e spesso senza preparare il terreno in modo efficace.

 

In merito all’accusa di aver ostruito le indagini sul Russiagate, le parole di Comey sono state più di sostanza. Infatti l’ex direttore ha ammesso che in realtà il presidente ha tutto il diritto di ordinargli di iniziare, o anche di chiudere, un’indagine. Negli Stati Uniti il capo dell’esecutivo è responsabile del Dipartimento di Giustizia, con importanti margini di discrezione. Pochi hanno sottolineato questa ammissione di Comey, che sgonfia le accuse di ostruzione. Tuttavia è innegabile che anche qui, Trump ha agito in modo inopportuno, con scarso rispetto per il decoro istituzionale; ha peccato di franchezza, il che non dovrebbe sorprendere nessuno.

Infine James Comey ha fatto un’altra ammissione, che solleva domande sulla sua vantata correttezza e imparzialità: aveva fatto trapelare alla stampa i contenuti dei suoi incontri privati con il presidente, dichiarando che lo scopo era proprio di aumentare le pressioni per la nomina di un procuratore speciale. Dunque il capo del Fbi, che regolarmente contrasta i leakers, cioè chi passa informazioni riservate alla stampa, ammette di fare la stessa cosa. Per di più, considerando il fatto che ha anche confermato che il presidente stesso non era oggetto delle indagini, non si può che concludere che la mossa sia stata di natura essenzialmente politica.

 

Infine, ieri anche il Ministro della Giustizia Jeff Sessions è stato sentito dalla Commissione sull’intelligence del Senato. Le accuse a Sessions riflettono il tentativo generale di criminalizzare qualsiasi contatto con i rappresentanti russi, in base al teorema: parlare con i russi = tradimento.

Sessions è stato messo al centro delle attenzioni per aver incontrato l’ambasciatore russo Sergey Kislyak almeno due volte durante la campagna elettorale, quando sosteneva fortemente Trump. Le occasioni sono state un incontro nel suo ufficio del Senato, in quanto componente senior della Commissione Forze Armate, e poi un saluto durante un evento con la presenza di circa 50 ambasciatori. Le voci su un incontro privato prima del secondo evento non sono state confermate, ma a prescindere di quanto si siano parlati, il punto sarebbero i contenuti: per i media e le istituzioni che vogliono bloccare l’apertura alla Russia, parlare con il “nemico”, anche della prospettiva di ridurre le sanzioni dovute alla questione ucraina, rappresenterebbe una pistola fumante.

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