di Paolo Balmas
Verso la fine di giugno, la banca d’affari Goldman Sachs ha abbassato le proprie previsioni sul prezzo del petrolio, relative all’indice texano WTI, riguardanti il trimestre in corso (luglio-settembre 2017). Il taglio è stato di 7,5 dollari, con un passaggio da 55 a 47,5 dollari al barile. Secondo la banca d’affari il mercato è ancora in cerca di equilibrio e il principale motivo che ha giustificato la scelta è stato l’aumento della produzione in Libia (dove ha raggiunto quasi un milione di barili al giorno) e in Nigeria, per un totale approssimativo di oltre 350.000 barili al giorno in più sul mercato mondiale. Tuttavia, la banca più potente di Wall Street fa notare che l’Arabia Saudita dovrebbe applicare maggiori tagli alla produzione, per contribuire alla ricerca di un maggiore equilibrio del prezzo.
La decisione di rivedere in modo così incisivo il prezzo del petrolio al barile ha influenzato anche le altre banche. Ad esempio, nella seconda settimana di luglio, la Barclays ha applicato un taglio di 8 dollari alle proprie previsioni, da 57 a 49 dollari al barile. Ma tra le motivazioni mette in evidenza anche l’abbassamento del break-even relativo al costo della produzione di shale oil negli Stati Uniti.
Gli squilibri del mercato petrolifero vanno ricercati anche altrove. Uno dei maggiori fattori delle incertezze attuali si ritrova nel contrasto che si è creato fra petrolio pesante e petrolio leggero, una questione di qualità che pesa in modo decisivo sul mercato. I principali produttori di petrolio leggero (di qualità superiore) sono gli Stati Uniti, la Nigeria e la Libia; mentre l’Arabia Saudita è il maggior produttore di petrolio pesante. Riyadh rischia di perdere mercato a causa dell’aumento di petrolio leggero sul mercato mondiale, la cui domanda presso i raffinatori è in consequenziale aumento. Quindi non si tratta solo della crescente pressione esercitata sull’Arabia Saudita (e su altri membri OPEC) affinché riduca la produzione nel tentativo di ricreare un equilibrio perso a causa dell’eccesso.
Da quando gli Usa hanno cominciato a esportare greggio, nel dicembre del 2015, hanno dato il via a una lenta (ancora ridotta) acquisizione di porzioni di mercato petrolifero globale. Fra gli altri mercati, quello cinese sembra uno dei più intenzionati ad aumentare le importazioni dagli Stati Uniti. A maggio 2017 sono quasi raddoppiate rispetto all’inizio dello stesso anno. Secondo alcuni analisti, l’abbassamento del prezzo provocherà un ulteriore aumento delle vendite, soprattutto nei mercati asiatici. Si ricorda che la Cina è uno dei principali clienti, se non il principale, sia dell’Arabia Saudita che della Russia.
Secondo Tim Dove, presidente di Pioneer Natural Resources, (riportato da Oilprice.com) l’Arabia Saudita non potrà sostenere a lungo un mercato sotto i 50 dollari al barile, perciò sarà costretta presto a ridurre la produzione. Dall’altro lato, le previsioni di produzione delle case petrolifere statunitensi, per la seconda metà del 2017 e per tutto il 2018, sono in netto aumento. Intanto, si registrano grandi movimenti nel mercato finanziario dei futures petroliferi e un prezzo al di sotto della soglia dei 50 dollari per tutto il 2018 mette di fatto a rischio il rating del mercato obbligazionario.
Gli interessi in gioco sono molti, se si considera che solo il mercato dello shale oil ha visto un aumento di 60 miliardi di dollari negli ultimi diciotto mesi, con una parte di tale quantità di denaro riversata nel debito ad alto rendimento. Movimenti che non possono essere intesi come la volontà di trovare un equilibrio del prezzo del petrolio, piuttosto come la creazione di nuove opportunità di speculazione a breve e medio termine. Per il momento si assiste, secondo i dati rilasciati dalla International Energy Agency (IEA), a un aumento nel mese di giugno della produzione saudita.
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