Putin, gli hacker e la Casa Bianca

Mondo

di Andrew Spannaus

Negli ultimi giorni è esploso di nuovo il caso delle presunte interferenze russe nelle elezioni americane attraverso una serie di azioni di pirateria informatica. E’ stato il principale giornale dell’establishment politico, il Washington Post, a svelare che la Cia è ormai convinta che la Russia sia intervenuta con lo scopo di aiutare un candidato - Donald Trump - a prevalere sul suo avversario Hillary Clinton.
Alcuni funzionari della Cia hanno dato un briefing ad un gruppo di Senatori ai primi di dicembre per presentare le loro conclusioni, che non rappresentano però una valutazione formale di tutte le agenzie della comunità d’intelligence. Ci sono ancora delle differenze all’interno delle istituzioni, nonostante la conclusione a maggioranza che la Russia abbia voluto favorire l’elezione di Donald Trump.

Nel corso della sfida elettorale tra Trump e Clinton il tema della Russia è stato quello più spinoso, su cui la differenza sostanziale tra i due candidati è stata più evidente. Se in materia economica Hillary Clinton ha spesso evitato di ingaggiare una battaglia diretta con Trump, tentando più che altro di intaccare la sua credibilità, sulla politica da tenere verso la Russia Clinton non ha avuto dubbi: Donald Trump è nella tasca di Putin, pronto a prostrarsi di fronte al più grande competitor geopolitico degli Stati Uniti.
Tra il mondo politico e quello dei media era estremamente difficile trovare chi mettesse in dubbio il teorema del “cattivissimo Putin”, tant’è che l’establishment stentava a credere che Trump potesse continuare a difendere la sua posizione di apertura verso la Russia. Eppure lo ha fatto in modo netto e deciso, con l’evidente convinzione non solo della necessità di una svolta a livello diplomatico, ma anche che la popolazione non cerchi un nuovo scontro in stile Guerra Fredda.
Anzi, alla fine Trump ha ridicolizzato le accuse contro Putin, dicendo che la situazione era diventata comica: “Tutte le volte che faccio qualcosa loro dicono ‘c’è di mezzo la Russia…’”.

Già durante la campagna elettorale fu dichiarato pubblicamente che il governo Usa considerava la Russia responsabile dei messaggi rubati dai server del partito democratico, successivamente pubblicati da Wikileaks. Julian Assange ha negato e continua a negare di aver ricevuto alcunché dai russi, ma secondo l’intelligence ci sono indizi che portano a degli hacker russi.
Tuttavia manca ancora la pistola fumante. Le agenzie di intelligence, come scrive il Washington Post, “non hanno prove che dimostrano che il Cremlino abbia ‘diretto’ gli individui a passare le e-mail democratiche a Wikileaks”. Di conseguenza c’è ancora chi mette in discussione le conclusioni della Cia. 

Ormai la questione è stata politicizzata però, perché nella cerchia di Trump ovviamente non si vuole ammettere alcun aiuto esterno, mentre altrove avanza l’idea di trovare un modo di bloccare l’arrivo di Trump alla Casa Bianca. In questo contesto è bene ricordare di che tipo di interferenza si sta parlando, considerando che le accuse ormai sono diventate uno slogan, senza più riferimento ai contenuti delle e-mail incriminate.
Non è mia intenzione negare la possibilità che la Russia possa aver incoraggiato o manovrato gli hacker che hanno bersagliato le istituzioni politiche degli Stati Uniti. Chi ha visto i dettagli dei rapporti della Cia potrà giudicare da sé, e il governo americano è sicuramente in grado, e anche disposto, ad agire con strumenti simili, come ha già dimostrato in altre circostanze. Gli attacchi informatici ormai fanno parte del confronto tra i paesi più avanzati a livello mondiale.
Quello che serve fare è ragionare sulla natura particolare delle accuse in questo caso.

Le e-mail, pubblicate da Wikileaks, che avrebbero danneggiato Hillary Clinton, sono quelle che dimostrano quanto la struttura del partito l’ha favorita nella corsa contro Bernie Sanders, e quelle che rivelano in parte il testo dei suoi discorsi alla Goldman Sachs. Dunque non si tratta di frode elettorale, di scandali inventati ad arte, o di danneggiamenti di sistemi importanti di sicurezza o per la campagna elettorale. No, il problema per Hillary Clinton è che qualcuno ha fatto uscire una verità che lei cercava di nascondere.
Intanto tutti sapevano già che il capo del partito democratico, Debbie Wasserman Schultz, preferisse Hillary a Bernie. La conferma venuta dalle e-mail avrà avuto il suo effetto, ma non si trattava di una rivelazione particolarmente sorprendente.
In merito invece ai 3 discorsi alla Goldman Sachs, per cui Hillary Clinton si è fatta pagare 675 mila dollari, il solo fatto che lei si rifiutasse di pubblicarne il testo aveva confermato quanto fossero compromettenti. Le e-mail saranno pure state pubblicate dagli hacker, ma la colpa sostanziale del contenuto non può che essere di Hillary Clinton stessa. Per di più, quei discorsi sono usciti nelle ultime settimane della campagna, in concomitanza con le registrazioni delle battute volgari di Donald Trump, attenuandone l’impatto.

L’episodio fa venire in mente le azioni di Edward Snowden. E’ vero che Snowden ha infranto la legge coscientemente. E’ colpevole. Ma la sua colpevolezza è passata in secondo piano a causa della gravità di quanto ha svelato: la violazione sistematica della Costituzione con programmi di sorveglianza illegali, e bugie costanti al Congresso e al pubblico in merito.
Qualcuno considera Snowden un patriota americano, e quindi non si può fare un'analogia diretta con il ruolo di un paese come la Russia. Tuttavia è sicuramente scomodo sostenere che sarebbe meglio per il popolo americano non sapere la verità; un attacco informatico di questo tipo trova infatti un pubblico molto ricettivo.

La politica da tenere verso la Russia è al centro di uno scontro importante a Washington in queste settimane. Prima della vittoria di Trump le istituzioni di sicurezza nazionale stavano già abbandonando i tentativi diplomatici di Barack Obama e di John Kerry, preparandosi ad un orientamento più aggressivo sotto una possibile presidenza Clinton. 
Ora il Presidente eletto sta confermando la sua posizione di apertura, a parole e anche nelle nomine, con la scelta del generale Michael Flynn come Consigliere per la sicurezza nazionale e anche l’annuncio di questi giorni della nomina di Rex Tillerson come Segretario di Stato. Il manager di Exxon Mobil viene bollato dai media come “l’amico di Putin”, aggiungendo un ulteriore tassello al quadro di un Trump apparentemente pronto a vendersi alla Russia in contrasto con gli interessi americani.
L’establishment americano, che ha combattuto contro Trump in campagna elettorale, uscendo sconfitto dal voto anti-sistema degli elettori, ora pensa di cavalcare le accuse a Putin per bloccare o indebolire il presidente entrante, facendo capire le difficoltà a cui andrà incontro la nuova Amministrazione nei prossimi mesi.

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