di Gianfilippo Cuneo
ECONOMIA
È noto che l’Italia non cresce, anzi decresce; il PIL procapite (più importante di quello assoluto, che è impattato anche dall’immigrazione), infatti, è in decremento strutturale da più di 10 anni, e non sono piccole variazioni di qualche “zero virgola” che possono cambiare la situazione; mediamente, quindi, i residenti italiani guadagnano sempre di meno. I trend macroeconomici derivano da ragioni profonde e non sono invertibili con qualche timida azione di politica economica. Quando nel 1499 Vasco da Gama dimostrò che si poteva passare dal Capo di Buona Speranza per andare e tornare dalle Indie, con un costo molto inferiore a quello della via di terra, il destino di Venezia e di Genova e delle lucrose (ma costosissime) rotte con il medio oriente era segnato; non c’era modo di invertire un declino strutturale che durò per 3 secoli (oggi tutto è più rapido). Oggi i mondi “vecchi” e costosi perdono terreno rispetto ai mondi “nuovi” che sanno produrre più a buon mercato e nei quali i consumi interni si espandono.
È fondamentale, anche se è impopolare, capire che siamo in un contesto di declino, non di crisi; una crisi è qualcosa che prima o poi passa (quella del ’29 finì, almeno a giudicare dagli indici di borsa, in 4 anni), il declino no. Una crisi si risolveva con alcune mosse di politica economica (era possibile ricorrere alla politica Keynesiana del deficit spending quando i confini dell’economia erano all’interno di un paese e gli stati non erano molto indebitati e stampavano moneta; oggi no); arrestare il declino richiede dosi massicce di cambiamento e lo spostamento di significative masse di lavoratori dalle aree improduttive a quelle che creano ricchezza e/o esportazioni. Dire che il jobs act (pure meritorio) o qualche sovvenzione alle famiglie è il massimo che si possa fare, ed illudersi che sia sufficiente, è simile a quando Fogar faticava tantissimo sul pack per andare al polo nord, ma ogni giorno il pack andava a sud più del massimo di strada che Fogar poteva fare. Non è aspettando una impossibile inversione del ciclo economico che si crea crescita vera, e non lo è nemmeno invocando flessibilità (cioè il diritto di rinviare alle generazioni future il pagamento dei debiti pubblici contratti per sostenere i consumi pubblici di oggi); è paradossale che oggi qualcuno pensi che il deficit di bilancio (quasi 3% del PIL) generi crescita del PIL, quando i fatti dimostrano che nonostante tale deficit (che si ripete da anni!) la crescita in valori assoluti è meno della metà e in termini di PIL pro-capite non c’è proprio!
Per guardare in faccia la realtà bisognerebbe incominciare a usare le parole corrette, e cioè:
- Declino al posto di “crisi”
- Decrescita al posto di “crescita negativa”
- Trend di declino al posto di “fase negativa del ciclo economico”
- Deficit improduttivo al posto di “flessibilità di bilancio” (cioè maggiori debiti pubblici)
- PIL pro-capite in decremento continuo al posto di PIL in valori assoluti leggermente in crescita (“zero virgola….)
- Sostegno drogato all’economia al posto di deficit di bilancio
- Fase negativa del ciclo economico; non esiste! Esiste il macrotrend del declino
Per immaginare una risposta adeguata al problema del declino bisognerebbe prima di tutto, dal punto di vista concettuale, accettare l’idea che l’Italia sia in concorrenza (e voglia vincerla) con paesi più affamati e che hanno lavoratori meno pagati e protetti; il declino è inevitabile se ci si arrende, come accade in tanti settori (per esempio è già successo nell’elettrodomestico bianco) dicendo che i nostri operai devono esser pagati di più di quelli polacchi. Non è cercando di focalizzarsi solo nei settori a maggior valore aggiunto e del “made in Italy” che si crea una occupazione significativa. Inoltre, è evidente che la concorrenza dai paesi a basso costo è crescente anche nei settori dei servizi (tutto quello che è digitalizzabile, per es. call centers, può esser fornito dalla Romania; il software può esser fornito dall’India, ecc.) e la si contrasta solo con salari bassi, eventualmente sovvenzionando le famiglie.
I commenti che seguono partono dal presupposto che sia nell’interesse dell’Italia rimanere nell’area Euro (con la nostra montagna del debito pubblico è impensabile rinunciare alla protezione della BCE); inoltre, sembra un dato di fatto che la maggioranza dei paesi forti dell’UE non vuole la mutualità dei debiti (anche delle banche), la possibilità che i paesi ricchi sovvenzionino quelli poveri (o indisciplinati); se l’Italia volesse davvero crescere dovrebbe farlo con le proprie forze e senza aumentare i debiti pubblici e non invocando un’unione politica dell’Europa, del sistema bancario europeo, delle politiche ecc. che nessuno vuole.
In teoria si potrebbe anche invertire il declino, ma ci vorrebbe uno sforzo enorme in tanti campi correlati, e in un paese in cui più del 50% della popolazione vive direttamente o indirettamente nell’area del pubblico (dagli insegnanti ai pensionati ai dipendenti delle ditte che fanno servizi pubblici o vendono a operatori pubblici, ecc. ecc.) i tagli necessari nel settore pubblico si scontrano con gli interessi immediati della maggioranza dei votanti e quindi non sono proponibili o votabili. Teniamo presente che in Italia le 35.000 imprese con fatturati fra i € 5 e 250 milioni, la base portante del nostro sistema industriale e di servizi, producono solo il 10% del PIL (dati CERVED); quelle con dimensioni maggiori investono e si espandono solo all’estero. Non si può pretendere che le piccole/medie imprese da sole riescano a fare, senza particolari aiuti, uno sforzo sufficiente a invertire la tendenza al decremento del PIL pro-capite. Sempre da un punto di vista puramente teorico, invertire il declino richiederebbe:
- Sovvenzionare e detassare l’occupazione aggiuntiva perseguita con salari molto bassi, per esempio integrando con sovvenzioni pubbliche i salari bassi dei dipendenti di aziende che sono in concorrenza con quelle di altri paesi; è evidente il rischio di abusi.
- Ridurre la percentuale del settore pubblico (diretto ed indiretto) sul PIL dal 50% al 40% (come era 20 anni fa) con politiche sistematiche di riduzione dell’occupazione e degli stipendi all’interno del settore pubblico (dopotutto chiedere un’efficienza del 2% all’anno – come nelle aziende - sarebbe solo normale, e così in 10 anni il settore pubblico potrebbe diminuire di 10 punti percentuali sul PIL); ovviamente forzando in parallelo la crescita dell’occupazione nel settore privato, anche eventualmente sovvenzionandola con i soldi risparmiati in stipendi o aumenti di stipendio pubblici
- Riformare radicalmente la presa del “pubblico” sulle imprese (burocrazia, controlli formali, autorizzazioni, giustizia amministrativa e civile, ecc.); niente contratti collettivi, realizzare l’equivalente dei “porti franchi” per chi voglia insediare in Italia nuove iniziative produttive, niente autorizzazioni per iniziare o fare qualsiasi attività. Intendiamoci, non si tratta di regolare un po’ meno, si tratta di non regolare per niente (tranne mirate eccezioni), un concetto che per i burocrati e i politici è una bestemmia.
- Privatizzare veramente (cioè passare il controllo ai privati) tutte le attività produttive del settore pubblico (incluso i “back office” delle amministrazioni pubbliche, che mal contati possono esser quasi il 50% del totale dei dipendenti pubblici) e la stragrande maggioranza degli immobili di proprietà pubblica (dando automaticamente libertà automatica di riconversione); solo così scatta finalmente la molla della produttività del lavoro e del capitale nel settore pubblico e si contribuisce alla riduzione dello stock di debito pubblico.
Come si possa fare tutto questo contro la volontà (e anche gli interessi di breve periodo) della maggioranza delle persone è evidentemente un problema insolubile; non stupisce quindi che ogni proposta logica e radicale si scontra con un “non si può fare” . Conseguentemente è chiaro che il declino è assicurato, dato che da qualche altra parte del mondo c’è qualcuno che invece fa le cose che da noi “non si possono fare”. Solo legalizzando il “far west” si riescirebbe forse ad invertire un trend secolare. E non è aumentando i debiti pubblici che si crea occupazione; negli ultimi 10 anni il debito pubblico consolidato è aumentato di quasi € 1.000 miliardi e dove è stato l’aumento dell’occupazione? Comunque per uno stato che non controlla la propria moneta non è pensabile di continuare a sovvenzionare i consumi attuali a scapito delle generazioni future perché prima o poi il problema del peso dell’immane debito pubblico esplode.
La priorità è quindi mettere al lavoro gli italiani che non ne hanno uno; si può fare nel settore privato, ma con sovvenzioni ai lavoratori italiani che accettano salari molto bassi, politiche da “far west” e cambiamenti radicali, coerenti e coordinati in tutti i campi.
Se comprendiamo veramente che siamo in decrescita (e non in una situazione di crisi), ci sono alcune importanti conseguenze logiche da accettare: occorre:
- ridurre il debito pubblico perché domani sarà più difficile ripagarlo di oggi
- azzerare il deficit di bilancio e privatizzare a tappeto perché bisogna ridurre il debito pubblico
- investire il risparmio delle famiglie in aree geografiche in sviluppo, non in Italia
- ristrutturare l’asset allocation dei fondi pensione da immobili e titoli di stato a titoli azionari nei mercati in sviluppo
- utilizzare lavoratori italiani al posto degli immigrati (da rimpatriare) per utilizzare meglio i posti di lavoro disponibili; evitare assolutamente la nuova immigrazione specie quella non qualificata
- più in generale, fare la guerra al consociativismo, e introdurre dappertutto concorrenza, meritocrazia, libertà di iniziativa, flessibilità del lavoro senza regole, ecc.
IMMIGRAZIONE
L’immigrazione incontrollata suscita paure e compassione, in particolare a causa di tragedie in mare e in terra e di migliaia di casi umani e, recentemente anche a causa di atti terroristici e all’evidente impossibilità di integrare culturalmente i maomettani. C’è però molta confusione e imprecisione su come è analizzato il fenomeno, mentre contrapposte ideologie (e in particolare l’apologia – senza dimostrazione dei vantaggi e ignorando gli svantaggi o i pericoli - del multiculturalismo) e pietismo impediscono di immaginare soluzioni fattibili e nell’interesse delle comunità soggette all’invasione.
Negli articoli di stampa o nelle trasmissioni televisive si fanno affermazioni che non corrispondono alla realtà attuale di molti territori, ed è quindi utile riassumere i fatti rilevanti per comprendere quanto di vero o falso ci sia in ogni affermazione. Persino un editore serio e informato come l’Economist afferma che gli immigrati producono un saldo netto di incassi dello stato; forse sarà vero per la Gran Bretagna, però nei calcoli non si specifica che l’affermazione può valere solo per paesi che hanno sia bassa disoccupazione sia la capacità di creare posti di lavoro, ed inoltre non si dice che il saldo sarebbe migliore se al posto dei migranti extracomunitari venissero messi a lavorare, anche con adeguati incentivi pubblici, i disoccupati o sotto-occupati nazionali o comunitari. In particolare, anche commentatori autorevoli fanno confusione fra rifugiati e migranti, fra situazioni storiche di paesi in crescita, e quindi situazioni favorevoli alla immigrazione, e situazioni attuali che invece hanno eccesso di disoccupazione, e quindi rendono impossibile creare lavoro per tutti, cittadini e immigrati (extracomunitari e comunitari). Opinioni diverse da quelle “politically correct” o buoniste sono tacciate di xenofobia, razzismo, ecc. impedendo quindi di discutere tecnicamente del problema e di individuarne le soluzioni logiche; gli attentati terroristici confondono ulteriormente le questioni e la confusione regna poi sovrana quando si fa l’apologia della cultura multietnica (non si vede razionalmente dove sia il vantaggio per i cittadini italiani, in particolare quelli disoccupati, di avere a fianco masse significative di immigrati maomettani non integrabili). Tutti partono dal presupposto che non si possa arginare il fenomeno, e quindi scartano a priori le soluzioni tecniche che eliminerebbero alla radice il problema; tale presupposto, però, è stato dimostrato non esser vero in paesi democratici come USA, Australia, Gran Bretagna, Giappone, Singapore, e persino Spagna, in particolare quando fra l’origine e destinazione dei flussi c’è un mare.
1.INTERESSE ECONOMICO NAZIONALE IN FAVORE DI MAGGIOR IMMIGRAZIONE
Qualcuno sostiene le seguenti tesi che alla prova dei fatti, e specificatamente per l’Italia, sono confutabili.
- “L’Italia ha bisogno di immigrati perché ci sono dei lavori che gli italiani non vogliono fare”: falso. L’Italia ha un tasso di disoccupazione enorme, senza contare la sotto-occupazione delle donne; basterebbe integrare con un sussidio statale i magri compensi che degli immigrati affamati accettano di ricevere per lavorare (in nero) e tutti i lavori diventerebbero appetibili anche per italiani disoccupati o che perderebbero ogni assistenza se non li accettassero. Dopotutto, anche in Giappone c’è chi lavora in fonderia, pulisce latrine, consegna pacchi, ma sono tutti giapponesi, non immigrati.
- "Senza gli immigrati non si riuscirebbe a dare assistenza ai vecchi (tema “badanti”, che è un fenomeno tipicamente italiano)”: falso. Il Giappone non ha immigrati, la Svezia non ha badanti e l’assistenza c’è comunque, in modalità diverse dalle nostre. E’ un fatto che le badanti “tolgono potenzialmente lavoro” alle donne italiane sottoccupate che opportunamente incentivate potrebbero fornire l’assistenza necessaria.
- “I lavori stagionali non si possono fare senza gli immigrati”: falso. Molti dei lavori stagionali, incluso i raccolti nei campi, possono esser fatti, come in altri paesi avanzati, con studenti, disoccupati ecc. e anche con immigrati veramente stagionali. Ovviamente bisogna integrare i compensi, ma un sussidio anche grande costa di meno alla collettività che aumentare i servizi (scuole, prigioni, sanità ecc.) per aver poi degli immigrati permanenti (e le loro famiglie), mentre contemporaneamente si continuare a dare l’assistenza (assegni integrativi, sanità) ai cittadini disoccupati. La Svezia “importa” lavoratori temporanei dalla Polonia, con permessi limitati a 6 mesi, e non ha quindi l’onere dell’assistenza né alla persona (eccetto che per il periodo di permanenza) né al suo nucleo famigliare; però controlla anche che alla fine del periodo se ne vadano davvero!
- “Con l’invecchiamento della popolazione il Paese ha bisogni di immigrati per crescere e per farli contribuire a pagare, in futuro, le pensioni degli italiani”; falso. L’Italia è in declino strutturale, ed è tecnicamente impossibile che le contribuzioni di chi lavora siano in futuro sufficienti a pagare le pensioni di chi non lavora (e in più anche la sanità, la cassa integrazione ecc.). Per contribuire alle (insufficienti) pensioni erogate dallo stato è molto meglio aiutare le imprese a crescere all’estero e poi tassarne i maggiori profitti; tra l’altro, favorire gli investimenti in paesi esteri comunitari (Romania, Serbia ecc.) dove la manodopera costa meno, è flessibile, ed ha meno oneri sociali diretti ed indiretti è anche utile in ottica di globalizzazione. E’ meglio avere più profitti senza gli oneri diretti ed indiretti dell’immigrazione che sperare di far pagare contributi agli immigrati e al contempo continuare ad assistere i disoccupati domestici. Se fosse vero che gli immigrati sono una risorsa e non un peso basterebbe lasciare che vadano dove i paesi la pensano così. All’affermazione che con l’invecchiamento l’Italia avrà bisogno di immigrati si potrebbe facilmente rispondere che quando c’è bisogno di personale prima si mettono al lavoro i cittadini disoccupati o sottooccupati e poi, se e quando ci sarà una scarsità di mano d’opera, si potrà importare mano d’opera qualificata in modo mirato, scegliendo anche chi e da dove. Non si vede perché si debba importare ora della mano d’opera non qualificata, perdipiù senza sceglierla, che servirà forse fra qualche decennio.
- “L’immigrazione contribuisce alla crescita del PIL”: falso. Il PIL italiano non cresce da 15 anni nonostante l’ingresso di oltre 5 milioni di immigrati, ed infatti il PIL pro-capite (che è più rilevante del PIL in valori assoluti) è in decremento strutturale, e non c’è niente da fare (o meglio non c’è niente che la maggioranza delle persone viziate da assistenzialismo, protezionismo, consociativismo, sindacalismo, buonismo ecc. voglia fare). L’immigrazione contribuisce a dirottare la spesa statale dagli investimenti a favore dei cittadini (che potrebbero favorire la crescita) ad una spesa corrente per gli immigrati (sussidi, sanità, educazione, prigioni ecc.) che sovente lavorano in nero e trasferiscono all’estero i risparmi.
- “Gli immigrati non tolgono lavoro ai cittadini”; falso. Ci sono studi approfonditi (per esempio in Germania e in UK) che dimostrano come la presenza di immigrati deprime in particolare i salari degli occupati nazionali della fascia bassa.
- “Gli immigrati non sono un problema di ordine pubblico”: falso. Un eccesso di offerta di mano d’opera a bassissimo costo alimenta la criminalità, ed infatti in Italia la percentuale di immigrati in prigione è superiore a quella dei cittadini italiani originari. I numeri dei reati, peraltro commessi prevalentemente da immigrati (principalmente furti), sembrano in calo perché la gente si stufa anche di denunciarli. Dove la percentuale di disperati è maggiore (per es. molte grandi città brasiliane, messicane ecc.) la percentuale di crimini è più elevata rispetto a paesi o città con pieno impiego e redditi adeguati per le fasce relativamente meno abbienti della popolazione. Quindi è pura matematica l’equazione “più immigrati = più crimini”.
2. DIRITTO ALL’ACCOGLIENZA
Le comunità dei paesi dell’Europa hanno un dovere morale (oltre agli obblighi della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951) di prestare assistenza diretta o indiretta ai profughi (non agli immigrati clandestini), ma non hanno un dovere di facilitare la trasformazione dei profughi in immigrati permanenti e indipendentemente dal desiderio di accoglienza espresso dalla maggioranza dei propri cittadini. Se i cittadini di una città o regione non vogliono accogliere profughi sul loro territorio, non è democratico imporlo, ma gli si può imporre di contribuire economicamente al costo dell’assistenza fornita altrove.
Sembra fuori luogo la ricorrente affermazione catastrofica che se si sospende Sheneghen si sfascia l’Europa; la libertà di circolazione è un diritto importante per i cittadini dell’UE, ma non è automaticamente da estendere per gli immigrati clandestini e non viene minacciato da controlli di polizia alle frontiere e dappertutto.
3. DOVE ACCOGLIERE
In principio i profughi sono degli immigrati temporanei, che devono ritornare nei propri territori quando finisce lo stato di guerra o persecuzione. E’ quindi logico che siano accolti in campi temporanei nel posto più vicino, sicuro e culturalmente e religiosamente omogeneo al territorio di origine. Per esempio, i profughi dell’IRAQ del nord dovrebbero esser accolti nell’IRAQ del sud; quelli dell’Afganistan in Pakistan; quelli della Siria in Turchia o Giordania (anche se tali paesi ne hanno già tantissimi e comunque non hanno ratificati alcuni trattati sui rifugiati). Sovvenzionare con fondi europei o delle Nazioni Unite l’accoglienza in tali paesi costa molto meno che farlo in Europa; dopotutto con € 5.000 per anno per rifugiato (che è sufficiente in paesi a basso costo della vita: è il guadagno di un manovale in Romania), anche 5 milioni di rifugiati sono un onere irrisorio per i contribuenti dei paesi ricchi (€ 25 miliardi all’anno).
4. PREFERENZE DEI RIFUGIATI
Se le preferenze di destinazione dei rifugiati non sono compatibili con i posti messi a disposizione nei paesi e località aperte all’ospitalità, i rifugiati dovrebbero esser accolti in campi provvisori in località vicine al paese di origine. Non esiste un “diritto” ad andare nei paesi più ricchi; e ovviamente non esiste in modo ancora più drastico per i semplici immigrati clandestini che cercano lavoro o assistenza sociale fori dal proprio (misero) paese.
5. PREFERENZE DELLE LOCALITÀ OSPITANTI
Nazionalità di origine, stato civile (singoli o sposati) e religione possono esser dei criteri di scelta, anche al fine di facilitare l’integrazione. Sembra logico che le comunità maomettane ricche (Arabia Saudita, paesi del Golfo, Iran) siano la destinazione naturale per rifugiati della stessa religione.
6. IDENTIFICAZIONE E MODALITÀ DI TRASPORTO
Deve esser possibile per i profughi esser identificati e fare domanda di assistenza, in un consolato di qualsiasi paese della UE, nel primo paese vicino al paese di origine (per esempio in Giordania o Turchia per i profughi della Siria). In tale paese il potenziale rifugiato dichiarerà una o più preferenze per la destinazione richiesta, ma se non ci sarà disponibilità di posti, l’assistenza verrà erogata sul posto (assistenza monetaria in primis). A seguito dell’accettazione da parte del paese e località di destinazione, deve esser fornito un trasporto decoroso e adeguato (aereo, traghetto, autobus). Chi invece chiede assistenza in un paese non limitrofo, cercando di “forzare” la situazione, deve esser rispedito in aereo, nave o autobus in uno dei paesi limitrofi e lì chiedere di ottenere lo status di rifugiato; violare le regole deve far perdere automaticamente la possibilità di esser considerato un rifugiato. Da notare che il Canada ha regole simili per chi chiede di immigrare in Canada (chi immigra illegalmente in Canada non può chiedere di esser considerato prioritariamente per la quota di immigrati considerata accettabile).
Due riflessioni ulteriori.
- Ma quanto tempo ci vuole rispedire a casa un migrante proveniente da un paese per il quale non è previsto l’asilo? Un giorno, e la polizia è capacissima di farlo. Che interesse ha il paese a consentirne la presenza di un clandestino sul territorio nazionale? Nessuno.
- Se il nemico conclamato è l’ISIS e/o i maomettani fanatici, perché mai sarebbe di interesse dei paesi civili combatterli con i propri soldati, lasciando invece che i giovani potenzialmente arruolabili in difesa di Siria, Libia, Iraq ecc. scappino dal loro paese?
7. CONFUSIONE FRA MIGRANTI E PROFUGHI
Le persone provenienti da paesi che non sono espressamente identificati come paesi con una importante guerra o persecuzione in corso, o che non fanno parte di gruppi etnici o religiosi soggetti a persecuzioni, devono esser considerate come migranti; la convenzione di Ginevra del 1951 specifica che profugo è chi proviene da aree con “well-founded fear of persecution”. Per esempio da Kosovo, Albania, Serbia, Nigeria, Tunisia, Algeria, Marocco, Libano, Pakistan e da quasi tutti i paesi dell’Africa Subsahariana possono fuoriuscire migranti, non profughi; il loro accesso deve esser consentito solo nella quantità massima che ogni paese definisce annualmente a priori, sia in termini assoluti che in termini di caratteristiche personali (istruzione, situazione economica, religione, stato civile, sesso ecc.). Se un paese ritiene di aver bisogno di immigrati, deve anche esser in grado di controllare provenienze e caratteristiche; per esempio, i celibi sono più interessanti dei coniugati con famiglia numerosa, perché prima poi sulla spesa pubblica ricadrà il peso del ricongiungimento familiare. Inoltre, c’è un enorme serbatoio di potenziali migranti europei (Romania, Bulgaria, ecc.), perdipiù facilmente integrabili, e non si vede perché dare anche l’accesso agli extraeuropei, ed in particolare quelli che non hanno nessuna intenzione vera di integrarsi. Solo se quelli che tentano di immigrare clandestinamente, contro la volontà dei paesi che dovrebbero dargli la residenza, verranno automaticamente rispediti al paese di origine, il flusso si arresterà, e in questo modo sì che verranno evitati i naufragi ed evitate migliaia di morti in mare. Gli USA hanno fermato l’esodo da Cuba quando hanno incominciato a rispedire a Cuba i barconi di migranti fermati in mare; idem ha fatto la Spagna con gli immigrati clandestini nelle Canarie. Si può scommettere che il numero di morti, che comunque inevitabilmente ci sarebbe se si imponesse con la forza il ritorno alla zona di partenza dei barconi di migranti, sarebbe enormemente inferiore di quello che c’è dandogli la certezza che si cercherà di salvarli e che l’Europa non è capace di rispedirli a casa (o a campi profughi organizzati in paesi limitrofi; Tunisia, Chad ed altri paesi sarebbero ben lieti di ricevere sovvenzioni per utilizzarne una parte per accogliere temporaneamente i migranti o anche permanentemente i rifugiati).
Comunque, senza l’uso della forza non c’è soluzione che tenga. La pietà per i casi singoli, l’accettazione della violazione di regole e l’intervento buonista sulle migrazioni per mitigarne gli effetti mortali ha come effetto l’incoraggiamento di ulteriori flussi migratori; tutti gli africani vorrebbero andare a vivere in Germania; dirottare fondi per aiutarli inevitabilmente toglie opportunità anche per i disoccupati o sottooccupati Rumeni, Albanesi, Serbi, Siciliani ecc. E’ inevitabile che se non si mette un catenaccio e regole rigidissime l’invasione continuerà, gli immigrati morti in mare e dentro i camion aumenteranno, le comunità locali reagiranno con violenza e alla fine il catenaccio dovrà arrivare; meglio quindi che arrivi prima che tardi, ma senza l’uso della forza per bloccare i migranti illegali sulle sponde di partenza e per rimpatriarli senza indugio si farà aumentare il problema, che in un contesto di enorme disoccupazione esistente e di declino permanente è veramente un problema esplosivo.
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