di Gian Carlo Blangiardo
Chi riteneva che il 2015, etichettato come “l’anno dei record” - dal minimo di nascite mai registrato prima, alla forte crescita anomala dei decessi, sino a un calo di popolazione che ha evocato i tempi della Grande Guerra - dovesse rappresentare un caso isolato nella storia demografica del nostro Paese sembra già costretto a ricredersi. Il bilancio del primo semestre del 2016 mostra che anche quest’anno, nonostante il ritorno ai livelli di mortalità “clementi” – le foglie secche cadute nel 2015 hanno tolto dall’albero della popolazione a rischio di decesso la componente più esposta - il saldo naturale dell’Italia (differenza tra nati e morti) continuerà ad essere pesantemente “in rosso”.
Ma cosa determina questo persistente stato di criticità sul fronte del ricambio generazionale, verosimilmente destinato a “regalarci” ancora - per il secondo anno consecutivo - un consistente calo di popolazione?
La spiegazione è nel numero dei nati. Ossia nella continua riduzione della loro frequenza annua. Mentre nel 2015 si è toccato il minimo di 486mila nascite, di cui 236mila nei primi sei mesi, durante il primo semestre del 2016 si è scesi ulteriormente del 6% (con 222mila nati) e si stima che a fine anno il nuovo record verrà stabilito a 456mila unità. Se ciò dovesse puntualmente accadere – e si hanno ben pochi motivi per dubitarne – avremmo registrato nell’ultimo quadriennio (2012-2015) un crollo della natalità pari al 15%: altro che calo del PIL !
Quanto agli scenari che ne derivano, è ben noto come il persistere di livelli di natalità simili agli attuali porterebbe non solo a un ridimensionamento del totale degli italiani – con 450mila nati annui e una “vita attesa” di 85anni una popolazione si stabilizza, in assenza di apporti migratori, attorno a 38milioni di abitanti (oggi siamo 60milioni)– ma soprattutto modificherebbe per alcuni decenni i parametri che stanno alla base del “patto” tra le generazioni. La scarsità di giovani, e quindi di potenziali lavoratori, finirebbe per mettere in crisi un welfare comunque ”condannato” per gran parte del secolo a prendersi cura di folte schiere di anziani (i numerosi figli del baby boom andranno in pensione attorno al 2030) senza poter contare su adeguati supporti da parte del ridotto numero di lavoratori/contribuenti.
Anche le stesse immigrazioni – che pur ringiovaniscono il Paese e forniscono un significativo apporto al bilancio della natalità – non possono affatto venir pensate come risolutive nel panorama demografico che va configurandosi.
Sappiamo bene che fenomeni come l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati richiedono abbondanti risorse (e tempi) e non sono esenti da obiezioni sulla base di logiche di convenienza e di sostenibilità: il giovane immigrato di oggi potrà diventare domani un pensionato a rischio di povertà se, come è facile che accada, sarà privo di un’adeguata carriera lavorativa e contributiva.
E anche sul fronte del supporto alla natalità, allorché ci si sofferma sui dati più recenti si nota come la fecondità delle donne straniere, pur restando ancora decisamente più alta rispetto a quella delle italiane, si sia fortemente ridotta nell’arco di pochi anni. Nel 2015 esse sono scese sotto il livello del ricambio generazionale (1,93 figli in media) e il loro contributo in termini di numero assoluto di nati si è progressivamente ridotto a 72mila dopo aver toccato il massimo di 80mila nel 2012 e nonostante nel quadriennio 2012-2015 la numerosità delle 15-49enni straniere (il potenziale riproduttivo in età feconda) si sia accresciuta di ben 242mila unità.
Italia: movimento naturale 1862-2016 (migliaia)
Fonte: Istat (n.stime per il 2016)
Non si può certo dire che negli ultimi tempi la demografia del nostro Paese non abbia avuto argomenti per far parlare di sé. Siamo passati, lo scorso anno, dalla paura per il picco di mortalità – apparentemente rientrato ma tuttora privo di esaurienti spiegazioni – alla parallela scoperta che anche la popolazione può incorrere in una “decrescita”, tanto più brusca quanto più viene a mancare il “paracadute” delle migrazioni.
Poi in questi giorni abbiamo potuto toccare con mano come il crollo della natalità in Italia stia diventando strutturale e quasi senza argini. Volendo ripetere un gioco che è stato proposto recentemente dal Censis in merito alla dinamica dei matrimoni religiosi arriveremmo a dire che, a forza di perdere 30mila nati ogni anno, l’Italia giungerà ad essere nel 2031 un Paese a “natalità zero”. Trattasi, come è evidente, di un esercizio di scriteriata estrapolazione, ma che, nella sua lucida follia, lancia il segnale di una tendenza meritevole di attenzione e (auspicabilmente) di una qualche iniziativa seria per tentare di contrastarla. Ricordandoci che anche in un mondo globalizzato, con la popolazione del Pianeta ancora in crescita e sempre più aperta alla mobilità, le grandi problematiche sul fronte demografico sono comunque da affrontare “localmente”: il crollo della natalità in Italia va innanzitutto risolto “in Italia”.
In conclusione, il libro della Demografia edizione 2016 – quand’anche letto solo a metà - racconta di un Paese che si candida sempre più per riconvertire i reparti di ostetricia in unità geriatriche e per sostituire pannolini e passeggini con pannoloni e deambulatori. Forse basta incrociare le dita e sperare che, come sembra sia accaduto per la mortalità, la congiuntura sfavorevole vada esaurendosi e la seconda parte del libro della Demografia edizione 2016 possa prospettarci un diverso finale.
O forse no. Ma come diceva un saggio studioso «La demografia si vendica di chi la dimentica». E chiudere gli occhi oggi non è una soluzione saggia.
Gian Carlo Blangiardo
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