Trump e l’intelligence: la guerra maldestra

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Il licenziamento del direttore del FBI da parte del presidente Donald Trump sta provocando una tempesta a Washington, con paragoni a Richard Nixon e speculazioni che la mossa di Trump per difendersi potrebbe in realtà essere l’inizio della sua fine. In superficie la storia è semplice:la Casa Bianca avrebbe cercato una scusa per estromettere James Comey perché stava andando avanti con l’indagine sui legami tra la Russia e la campagna elettorale di Trump. Come con tutti gli scontri intorno al nuovo presidente, in realtà c’è un altro livello da considerare.

Lo scenario più profondo, ipotizzato da alcune fonti a Washington, è questo: l’anno scorso, prima delle elezioni di novembre, alcune figure chiave nella comunità d’intelligence americana hanno raggiunto la conclusione che né Hillary Clinton né Donald Trump erano adatti a fare il presidente. Clinton era pericolosa per via del suo atteggiamento aggressivo in politica estera, e Trump semplicemente non era qualificato. Dunque si sono messi in moto dei piani per danneggiare entrambi, con la speranza di mettere un’altra persona alla Casa Bianca.

Questa “congiura” sarebbe stata l’impeto per le indagini del FBI sulle e-mail di Clinton che hanno danneggiato la sua campagna elettorale, e anche per le pressioni pubbliche sulla questione dei legami Trump-Russia. Dopo la vittoria di Trump, le preoccupazioni sono aumentate e quindi l’intelligence ha iniziato una serie di interventi senza precedenti con lo scopo di bloccare l’insediamento del presidente-eletto, o perlomeno di danneggiarlo in modo sufficiente da avere armi per agire in futuro. I direttori del FBI (Comey), della CIA (John Brennan) e della Direzione Nazionale dell’Intelligence (James Clapper), con l’aiuto dell’allora presidente Barack Obama, prima hanno fatto trapelare dei giudizi sul presunto aiuto russo alla campagna di Trump, e poi, quando non si era ottenuto l’effetto sperato, hanno pubblicato una valutazione ufficiale sulle interferenze russe, seppur senza prove puntuali.

 

Le pressioni sul Russiagate sono state tali da convincere il presidente Trump a licenziare il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Flynn, e a lanciare 59 missili contro una base aerea in Siria, con lo scopo di dimostrare la sua non-vicinanza a Vladimir Putin. La mossa sembra aver avuto l’effetto desiderato per qualche settimana, in quanto buona parte delle istituzioni politiche si sono compiaciute per questo cambiamento di rotta di Trump. Tuttavia le indagini sono continuate, da parte del Congresso, portando alle audizioni dell’ex Ministro della Giustizia facente funzioni Sally Yates - licenziata subito dopo l’insediamento del nuovo presidente - e di Comey la scorsa settimana, riaccendendo i riflettori sulla questione e aumentando di nuovo le pressioni.

A questo punto Trump ha deciso che chi nel mondo d’intelligence è legato alla precedente Amministrazione è troppo compromesso, e potenzialmente coinvolto in un tentativo di far cadere il presidente per motivi politici, cioè di opposizione alla sua persona, e alla nuova corsa di politica estera proposta (anche se attuata solo in piccola parte per ora).

Il licenziamento di James Comey è stato senz’altro maldestro, e i rappresentanti della Casa Bianca non sono particolarmente bravi a mentire sulle loro motivazioni. Tuttavia, dal punto di vista dello scontro dietro le quinte la spiegazione ufficiale su come Comey sia intervenuto in modo scorretto nella campagna elettorale, contro Clinton, ha degli elementi di verità; solo che ovviamente rappresenta solo uno dei tasselli del quadro. L’altro, ben più importante a questo punto, è che lo stesso Comey, con altri player importanti dell’intelligence, mirerebbero ad intervenire in modo ancora più pesante per mettere in difficoltà il presidente in carica. La guerra continua.

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