Il presidente americano Donald Trump è sempre più sotto attacco per il suo atteggiamento di apertura verso la Russia. L’ultimo episodio presentato dai media come un gravissimo atto di tradimento è stato la condivisione con la Russia di alcune informazioni riservate in merito alla battaglia contro lo Stato islamico. Non è certamente il primo “scandalo” della presidenza Trump in relazione alla Russia, ma è evidente che si sta entrando in una nuova fase, con l’avanzare dell’impressione che Trump stia commettendo reati passabili di impeachment.
Il problema con questa narrazione è che è stata creata ad arte, e in genere non si basa su fatti effettivamente illeciti. L’esempio più immediato è la condivisione degli elementi d’intelligence con il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e l’Ambasciatore russo negli Stati Uniti Sergey Kislyak da parte di Trump il 10 maggio. I commenti di buona parte dei giornalisti e dei politici si concentrano sul fatto che il presidente avrebbe dato informazioni riservate ad un “paese nemico”, cioè che la gravità dell’atto è l’aver tradito gli interessi del paese.
Con la solita mancanza di coordinamento, lo staff del presidente ha dapprima negato tutto, ma poi Trump stesso ha affermato di avere il “diritto assoluto” di condividere informazioni se vuole, soprattutto con l’obiettivo di convincere la Russia ad intensificare la lotta al terrorismo. Nonostante la frenesia mediatica, un lettore attento può vedere che perfino il Washington Post ha dovuto ammettere questa realtà, scrivendo: “Per quasi chiunque lavori nelle istituzioni governative discutere questioni simili con un avversario sarebbe illegale. Come presidente, Trump ha l’autorità ampia di declassificare i segreti governativi, il che rende poco probabile che abbia violato la legge con le sue rivelazioni”. Si noti comunque l’utilizzo del termine “avversario”, un assunto dubbio in questo caso, in quanto da tempo gli Stati Uniti cercano di collaborare con la Russia contro il terrorismo islamico.
L’immagine della Russia come “nemica” però è in linea con l’obiettivo più profondo del Russiagate dall’inizio: evitare il cambiamento di rotta nei rapporti Usa-Russia annunciato da Trump dall’inizio della sua campagna elettorale. Questo obiettivo viene favorito da come si presentano le azioni di Trump, a prescindere dalla realtà sottostante. Infatti quello che viola Trump sono principalmente le linee guida della politica preferita dall’establishment. Su questo secondo aspetto i grandi media preferiscono evitare un dibattito trasparente, adottando un atteggiamento scandalista come metodo di pressioni per mettere in difficoltà la Casa Bianca.
Un altro esempio delle forzature viene direttamente dalle istituzioni. Quando lo scorso 6 gennaio il governo Usa ha pubblicato un rapporto con le valutazioni della comunità d’intelligence sui presunti hacker russi, è stato detto che ben “17 agenzie d’intelligence” avevano raggiunto la conclusione che un intervento russo c’è stato. Quando invece l’ex Direttore dell’intelligence nazionale (DNI) James Clapper è stato sentito al Senato l’8 maggio, ha fatto qualche passo indietro, dicendo che in realtà solo un gruppo ristretto di analisti è stato coinvolto, delle tre agenzie principali (CIA, NSA, FBI). In un’audizione separata ha anche detto che le conclusioni erano il frutto di ragionamenti, non di prove. Questo ridimensionamento delle accuse ha trovato poco spazio sulla stampa però, che nel frattempo è passata allo scandalo successivo, ignorando il metodo utilizzato per raggiungere l’obiettivo politico di prevenire un cambiamento nella politica estera americana.
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