Politiche europee: stallo o regresso?

Italia

di Giuseppe de Virgottini

Sulla integrazione economica e politica europea e sulle soluzioni organizzative da attuarsi per conseguirla si è scritto molto, a volte in modo realistico, spesso in modo retorico condizionando la situazione oggettiva a una vulgata europeista che ha fatto spesso perdere di vista il profondo distacco fra un ideale federalista e la più concreta realtà degli interessi nazionali.
Le difficoltà economiche degli ultimi anni hanno fatto emergere in modo sempre più evidente sia crisi localizzabili in precise aree di responsabilità di alcuni Stati membri della Unione, sia una più ampia e comprensiva crisi che investe l’intera costruzione della Unione. Siamo tutti consapevoli della necessità di una riflessione che investa il processo di integrazione europeo nel suo complesso, riflessione che tenga conto delle profonde criticità
ormai manifeste senza indulgere ad affrettate conclusioni negative sul proposito stesso di integrazione.

Vediamo di impostare questa riflessione.
Perché si è giunti a questa situazione di grande difficoltà che rende difficile intravedere conclusioni positive della complessa crisi?

Crediamo che una delle ragioni di fondo vada ricercata negli errori politici di prospettiva della costruzione europea. In primo luogo un eccesso di allargamento della primitiva
unione. L’aumento accelerato di allargamenti ha reso problematico il passaggio alla integrazione fra comunità nazionali vicine sotto alcuni profili ma molto distanti sotto altri.
Quindi troppi partner. E fra questi progressivamente sempre più numerosi quelli che dopo aver fatto sforzi per essere ammessi alla Unione al fine di approfittare dei vantaggi del mercato unificato si sono poi rivelati ostili al processo integrativo in quanto gelosissimi della riconquistata piena sovranità dopo la fine del blocco sovietico.

In secondo luogo la inadeguatezza delle formule istituzionali sperimentate. Accantonato il modello istituzionale integrativo incentrato su Commissione, Parlamento e Corte, il centro decisionale del processo politico è costituito dalla compresenza necessaria di tutti i partecipanti e quindi dalla prevalenza della formula intergovernativa.

Punto critico del sistema di integrazione è un Parlamento che non rappresenta i popoli europei. O meglio, che formalmente lo fa ma nella sostanza non è sentito come rappresentativo dai vari corpi elettorali nazionali. Risultato un Parlamento con scarsa o
latitante legittimazione. Un Parlamento di cui nessuno, a parte gli esperti, conosce bene quello che fa o dovrebbe fare. Un Parlamento che non si vergogna di impegnare due sedi a distanza di poche centinaia di chilometri per svolgere il suo lavoro con un carico spaventoso di oneri per le finanze dell’Unione e di riflesso degli Stati.

Altro punto negativo. La Commissione quale esecutivo espressione del momento integrativo. Afflitta da una complessa e spropositata macchina amministrativa. Dominata dagli eurocrati considerati come avulsi da ogni rapporto di contiguità con le politiche e gli interessi nazionali, invisi alle opinioni pubbliche.

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Assolutamente carenti di legittimazione. A una carenza di legittimazione degli organi politico-amministrativi espressione dell’integrazione si sostituisce una forte legittimazione
della giurisdizione comunitaria. Ma qui si manifesta una singolare cesura nel processo di legittimazione dell’insieme delle istituzioni. La legittimazione della Corte non è attribuita dai
popoli degli Stati membri che la ignorano. Il soggetto collettivo legittimante è il ceto dei giuristi che deve fare i conti col complicato intreccio di competenze fra giurisdizioni nazionali gelose della sovranità dei rispettivi Stati e giurisdizione comunitaria
posta a presidio dei vincoli imposti dai trattati. E ciò che può apparire singolare è il fatto che la forte legittimazione della Corte permane nonostante la evidente crisi che affligge
la Unione da almeno un decennio. Dunque la legittimazione che i giudici nazionali costantemente continuano a riservare alla Corte compensa la profonda incrinatura del prestigio istituzionale degli organi politico-amministrativi che sussiste soltanto per l’organo
intergovernativo.

Ormai è pacifico che fra le istituzioni dotate di potere politico-amministrativo l’unico centro istituzionale che conta è dato dal Consiglio. L’organo intergovernativo costituisce il fulcro decisionale. Sono i rappresentanti dei 28 Stati che sono in grado di dare l’impronta
determinante alle politiche della Unione. Ma sarebbe ingenuo e contrario alla realtà pensare che vi sia una equivalenza di peso della volontà dei membri. Tutti hanno coscienza del ruolo di forza sempre assunto nel tempo da alcuni Paesi, o come singoli o in combinazioni ristrette secondo la formula del direttorio. Negli anni recenti è la Rft che si è imposta come leader dell’organo decisionale politico.
Quindi consolarsi pensando che l’inefficienza degli organi di integrazione bene o male sia supplita dall’organo intergovernativo significa non voler vedere l’attuale situazione di
sbilanciamento all’interno dei 28. Non si può dire che l’organo comune degli Stati governi l’Unione quando sia evidente che le decisioni finali maturano e si concludono soltanto se lo Stato leader è d’accordo.

Sostenere che per risolvere le crisi economico-monetaria gli Stati bisognosi di aiuto dovrebbero dare più potere al centro trasferendo alla Unione altri pezzi di sovranità significa quindi dare la possibilità giuridica ai ministri dell’attuale Paese guida di avere l’ultima parola, come avvenuto a proposito del Ministro delle Finanze tedesco per la soluzione della crisi greca. Spesso poi è prevalso per l’economia il metodo del direttorio, guidato di fatto dalla Germania e reso insuperabile con il potere di veto.

Ci si è affidati al solo metodo intergovernativo. Per la politica estera e per gli interventi esterni non si è neppure arrivati a questo:  l’Unione ha proceduto in ordine sparso, anche se la posta in gioco era comune: così per l’Iraq, così per il Medio Oriente, dalla Libia alla Siria.

Si fa presente da più parti che l’attuale situazione di inadeguatezza della macchina europea deriverebbe dalla carenza di un governo comune dell’Unione europea per gestire le migrazioni, per combattere il terrorismo e per assicurare la sicurezza e la difesa. Ovviamente è evidente che occorrerebbe una gestione unitaria delle frontiere esterne dell’Europa e una gestione coordinata dell’immissione dei migranti sia quanto ai numeri globali sia quanto alle destinazioni specifiche entro l’Unione. Riguardo al terrorismo la presenza di una intelligence comune, con gestione trasparente e comune dei dati, avrebbe forse evitato le conseguenze tragiche degli attentati in Francia. Quanto a una difesa
comune europea, in linea di principio avviabile già con il Trattato di Lisbona, costerebbe ai cittadini molto meno e sarebbe in pari tempo molto più efficace. Ciò che servirebbe per affrontare le sfide sarebbe dunque un governo comune dell’Unione, che sinora è
mancato. Per la sfida dell’economia è necessaria e giuridicamente possibile una cooperazione rafforzata entro l’Eurozona con un ancoraggio al Parlamento europeo; per la difesa è possibile una cooperazione strutturata anche circoscritta ad alcuni Paesi. Per
le immigrazioni e per il terrorismo una configurazione ristretta che divida al suo interno l’Europa non sembra invece praticabile.

Si tratterebbe di capire cosa debba intendersi per governo comune. Soluzioni nuove da raggiungere con nuovi accordi fra Stati o semplicemente utilizzo degli apparati attuali ma in modo da evitare le deficienze fino a oggi riscontrate? Si può rispondere alla domanda dicendo che istituire un governo comune significa decidere insieme, naturalmente a maggioranza, ove non vi sia accordo tra tutti i governi; affidare a un’autorità singola (la Commissione) il compito di svolgere e rendere operative le decisioni; ancorare le decisioni legislative e politiche al voto del Parlamento europeo. Se la risposta deve essere in questi termini occorre prendere atto che tutto questo in realtà dovrebbe già essere pratica comune ma così non è stato in concreto.

Qualcuno ha riproposto di insistere sulla necessità di una struttura federale europea. Proposta del tutto svincolata dalla realtà e sicuramente non percorribile. Evidentemente si finge di ignorare come il pretendere di imporre ulteriori cessioni di sovranità sarebbe un passo respinto coralmente dagli Stati. L’esperienza non esaltante del fallimento del trattato costituzionale non ha insegnato niente. Il trattato avrebbe dovuto consentire una vera e propria costituzione della Unione pur in assenza di una unica comunità politica europea. In altre parole, avrebbe dovuto instaurare qualcosa di sostanzialmente simile a uno Stato
federale europeo soddisfacendo le antiche aspettative del movimento federalista. Ma il risultato non è stato possibile. In realtà dal punto di vista fattuale la Unione aveva inteso bruciare i tempi tendendo tramite i suoi organi a individuare una costituzione nei principi fondamentali che reggono la costruzione comunitaria.

Principi-valori caratterizzanti, dapprima elaborati in sede giurisprudenziale e poi inseriti nei trattati. Adozione della Carta dei diritti fondamentali, presenza di un complesso di organi e
di fonti normative, presenza di soggetti destinatari delle normative, sistema di garanzie giurisdizionali, erano tutti elementi da cui veniva desunta la natura costituzionale della normativa di riferimento. Questo indirizzo, presente in modo forte nella giurisprudenza comunitaria, tendeva a valorizzare al massimo il principio del primato del diritto comunitario e della sua efficacia diretta nell’ordine giuridico statale e portato alle estreme
conseguenze tendeva a far emergere la pretesa di una superiorità gerarchica delle fonti comunitarie rispetto a quelle statali fino a individuare una costituzione europea condizionante quelle statali.

Ma, si ripete, mai gli Stati hanno ammesso una forma di potere comunitario che mettesse in disparte le varie sovranità interessate al processo integrativo.

È inevitabile essere consapevoli di un fenomeno che accompagna da sempre il ruolo degli Stati, anche in seno alle unioni internazionali. Il diverso peso della sovranità. Sovranità forti e deboli. Niente di nuovo, quindi, bastando prendere atto in modo onesto senza continuare a confondere le regole giuridiche con quelle della prassi politica.

Questo spiega senza difficoltà il diverso svolgersi degli atteggiamenti degli Stati per affrontare le più recenti crisi. La crisi dell’euro ha condotto alla contrapposizione fra Stati debitori e Stati creditori. La crisi dei rifugiati alla contrapposizione fra Stati dell’Est contrari al transito e alla ospitalità e quelli dell’ovest più 40 disponibili. La crisi del terrorismo ha visto l’isolamento della Francia disposta alla maniera forte rispetto alla generalità dei partner di fatto contrari al rischio di impegno militare. E si potrebbe continuare con gli esempi.

Il richiamo alla sovranità porta inevitabilmente a sottolineare come sia del tutto chiaro che gli Stati non vi vogliono rinunciare.  Quanto hanno deciso con i trattati è, oggi e in prospettiva, il massimo possibile. Quindi basta con le fughe in avanti verso
un vagheggiato modello federale. Il discorso è del tutto diverso. La spinta odierna che tende a espandersi è per un recupero di sovranità almeno in via di fatto.

Aumenta il numero degli Stati che vorrebbero recuperarla. Per questo è attuale il dibattito in Gran Bretagna sul Brexit. Aumentano i movimenti partiti euroscettici e dove vincono
le elezioni sono le politiche ufficiali degli Stati che mettono freni a una lettura integrazionista degli impegni. Particolarmente indicativa la posizione britannica imperniata
sul tema della sovranità nazionale. Cameron vuole che sia formalmente chiarito che il Regno Unito è escluso dall’obiettivo di perseguire un’Unione sempre più stretta. Al contempo vorrebbe rafforzare la possibilità dei Parlamenti nazionali (attualmente prevista
in maniera blanda dai primi due protocolli allegati al Trattato di Lisbona) di bloccare la legislazione europea, rafforzando al contempo la regola della sussidiarietà. Si aggiunge la richiesta che riguarda la riduzione dell’immigrazione intracomunitaria e più in generale l’intento di neutralizzare le sentenze della Corte che hanno troppo allargato il campo di applicazione della libera circolazione delle persone. Inoltre i cittadini di altri Stati membri
che si recano a lavorare in Inghilterra dovrebbero contribuire al sistema sociale per quattro anni prima di avere titolo per usufruire dei benefici sociali. Pretese che sconfessano il principio di non discriminazione sulla base della nazionalità e quello della libera
circolazione dei lavoratori, come codificati dai trattati, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e dalla legislazione derivata.

Tra l’altro alcune modifiche richiederebbero la revisione degli attuali trattati, soprattutto per quel che concerne la governance dell’area euro. Inoltre, nonostante la Corte di Giustizia abbia recentemente adottato un approccio più restrittivo che in passato sui diritti dei cittadini di altri Stati membri a usufruire di benefici sociali nel Paese ospitante, le limitazioni prospettate sembrano contrarie ai principi fondamentali del trattato.

Le richieste inglesi potrebbero fornire una occasione per una revisione dei trattati che comunque, almeno teoricamente, sarebbe prevista nel 2017 per incorporare il Fiscal Compact. Ma, più in generale non si può escludere che siano proponibili revisioni.
Naturalmente non si trascuri che la revisione è di per sé un processo faticoso e rischioso, in quanto ciascun Parlamento nazionale dovrebbe ratificarla. Sembra che il governo italiano
qualcosa intenderebbe proporre in vista della ricorrenza l’anno prossimo dei sessant’anni del Trattato di Roma sulla Comunità economica.
Il discorso è impegnativo. Non dimentichiamo che il trattato attuale prevede il recesso e quindi rende in teoria agevole una nuova discussione dei precedenti impegni, tenendo conto dell’affermazione dei movimenti contrari alla integrazione, potrebbe scatenare orientamenti disgreganti l’Unione e quindi di segno opposto a chi auspica un rafforzamento in senso federale della stessa. A questo punto bisognerà capire se sia perseguibile e credibile la strada di un rafforzamento della Unione in senso politico individuando anche una responsabilità della stessa sul fronte della unione fiscale, oppure se si dovrà prendere atto di una situazione di stallo o addirittura di regresso in cui confermare il fallimento
di più ampie illusioni di integrazione mantenendo le attuali regole e confermando la prevalenza del metodo intergovernativo.

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