Il progetto di potere della nuova costituzione

Italia

di Giulio Tremonti

Caro direttore, non solo le conseguenze fanno parte dei fatti, anche le premesse. E dunque, come nel Brumaio del 1799 Napoleone Bonaparte inizia la sua avventura come «Primo Console», così — se non è riduttivo il paragone — nella radiosa primavera del 2014 Matteo Renzi inizia la sua avventura neoconsolare: non solo Segretario del suo partito, non solo presidente del Consiglio dei (suoi) ministri, ma tutte e due queste cose insieme, più qualcos’altro: il frutto atteso da due congiunte leggi di riforma, una elettorale, l’altra costituzionale. Due leggi sviluppate in parallelo al servizio di un unico piano politico. E oggi è inutile tentare di negarlo, perché Google non perdona. In ogni caso, una prova per tutte: la nuova legge elettorale è solo per la Camera e non per il Senato, per la semplice ragione che nella nuova parallela «Costituzione» questo non sarebbe più eletto dal popolo.

E, dunque, due pezzi disegnati per essere poi fusi in unico monoblocco di potere. Quello che a Bruxelles si definisce come un «political compact» e a Firenze si chiama «panino». Prima di mangiarlo o gettarlo, togliamo almeno il Domopak che l’avvolge. Il primo pezzo, la legge di riforma elettorale, contiene due gravi errori: uno strategico e uno tattico. Errore strategico è pensare, è illudersi che i grandi e crescenti e drammatici problemi portati dalla globalizzazione — dalla crisi alle migrazioni — possano essere governati con piccoli numeri. Forse era così una volta, oggi non è più così. Oggi, se sei minoranza nel Paese, ma per effetto di legge diventi maggioranza in Parlamento, non vai comunque da nessuna parte. Anche perché la «rete» brucia nell’istantaneo quei tempi che prima la legge comunque garantiva alla vecchia politica. Se in Italia i votanti sono il 60% e il Pd ha il 30%, vuol dire che il Pd ha solo il 18% dei voti degli italiani. Vuol dire che, su 10 italiani, circa 2 sono per il Pd, ma gli altri no. La Germania ci può non piacere, ma piace ai tedeschi, che sono forti anche perché dal 2003 sono uniti in una «grande coalizione». E poi l’errore tattico: solo dopo si è scoperto che la legge elettorale, confezionata su misura per vincere, fa vincere un altro. Il secondo pezzo, fabbricato nell’officina della riforma costituzionale, dovrebbe funzionare come una macchina politica più veloce, più economica, più stabile. Una macchina più veloce, nella produzione delle leggi? Nel solo 2014 il vecchio sistema bicamerale italiano è stato così «lento» da produrre 7,8 chilometri lineari di nuove leggi (più che in Germania o in Francia). Il 58,9% sono stati Decreti legge, ciascuno mediamente finalizzato in soli 52 giorni. Oggi siamo al 59° Decreto legge. In realtà in Italia non servono più leggi e, comunque, quello della maggior necessaria velocità legislativa è un falso problema, che certo non si risolve con una falsa soluzione. Una macchina più economica? Se anche il prezzo di listino fosse un po’ più basso, il costo di manutenzione e di transazione, per procedure e conflitti di attribuzione e potere, sarebbe certamente molto più alto. Infine una macchina più stabile? La competenza del nuovo «Senato» non è stata limitata ai «territori», alle materie di interesse municipale e regionale, come sarebbe stato logico, ma estesa all’Europa (artt. 70,81,87). E dunque, dato quanto fa o pretende di fare e normare e regolare l’Europa, così si finisce per dare al nuovo «Senato» una competenza a sua volta quasi universale.

Così che, a partire dai «Trattati europei», che saranno decisivi per il nostro futuro — per restare in Europa, per uscirne, per cambiarla — tutto bicameralmente dipenderà da un organo drammaticamente e grottescamente inadeguato. Nessuno potrà imporgli la fiducia, per contro quasi tutti i senatori offriranno sul mercato politico il loro voto. Come è stato sempre e tipico, nei «Senati» della decadenza. Così che si passerà dalla padella del «Titolo V», sul cattivo rapporto tra Stato e Regioni, alla brace del caos, nel rapporto con l’Europa.

La fragilità degli elementi strutturali della nuova «Costituzione» risalta comunque nella varietà irrazionale degli argomenti utilizzati per sostenerla. Il cambiamento per il cambiamento, come valore in sé, nel «movimento» esprimendosi lo stile di un nuovo futurismo politico. Il fatalismo dell’«ora o mai più». In realtà la Costituzione è già cambiata 36 volte. Lo scambio tra una Costituzione e una «manovra economica»: come una «slide» la «Costituzione» servirebbe infatti per «far ripartire l’economia», questa per suo conto invece ferma, nonostante tutte le leggi fatte finora. L’alibi dell’orfano: stiamo correggendo gli errori che noi stessi abbiamo fatto nel 2000-2001, come chi uccide i genitori e poi chiede le attenuanti perché è orfano. Si riformerebbe «solo» la seconda parte della Costituzione, la prima resterebbe invariata. C’è invece sempre stato un effetto di trasmissione, tra le due parti. Basta vedere come il «nuovo» articolo 117, incorporando l’Europa, e il nuovo art. 81, incorporando il «fiscal compact», abbiano già influito sulla struttura dei diritti garantiti nella prima parte della Costituzione. Il maldestro tentativo di correggere gli errori: l’«Italicum» per ora messo nel «freezer»; i senatori che dovrebbero essere eletti indirettamente «ma anche» direttamente. Infine, gli argomenti apocalittici: l’«horror vacui», per ciò che potrebbe succedere dopo, salvo poi dire che non succede niente. E così via. Come concludere? Risalendo alle premesse si vede oggi che, dopo la radiosa primavera del 2014, come in un Brumaio rovesciato siamo arrivati all’autunno. Nella storia le Costituzioni sono sempre state di tre tipi: prodotte a seguito di guerre o rivoluzioni; graziosamente concesse dai sovrani; scritte per comune convinzione tra tutti i rappresentanti del popolo. Ora ne avremmo una di quarto tipo: scritta per approssimazione e per appropriazione. La «Costituzione» di un partito, malamente disegnata da un partito e per un partito che, una volta «vinte» le elezioni, potrebbe senza limiti fare tutto ciò che vuole. Con modiche quantità di popolo. Ma creando nel Paese, comunque vada il «referendum», una ulteriore, violenta e non necessaria divisione. Prima che all’autunno faccia seguito l’inverno della Repubblica, si potrebbe forse tentare di passare dall’«io» al «noi»; scendere dall’alto, per scoprire che c’è anche il basso; tenere conto del futuro e non solo del presente e l’allarme già suona con la drammatica improvvisa ma spiegabile caduta del tasso di natalità; non credere solo nel potere, ma anche nei valori; intendere il bene comune come qualcosa di diverso dalla semisomma sistematica di specifici interessi elettorali.

Fonte: Corriere della Sera

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