Superare il tabù della monetizzazione del deficit per salvare l’euro

Europa

di Giovanni Tria

  1. Tre domande e tre fallimenti

A sessanta anni dal Trattato di Roma, le conquiste del percorso di integrazione europea, l’Unione Europea e la moneta comune, appaiono molto più fragili di quanto solo alcuni anni fa si sarebbe potuto immaginare. La crescita dei movimenti anti-europei in tutta Europa è una realtà, seppur con un peso e con caratteristiche diverse, nei principali paesi dell’eurozona. La vittoria della candidata anti-europea alle elezioni per la presidenza francese non è considerata ancora probabile, ma senza dubbio l’evento è passato dalla categoria dell’impossibile a quella del basso grado di probabilità.

In questo contesto le domande a cui è necessario rispondere sono almeno tre, concatenate tra di loro. Quali sono le condizioni oggettive per la sopravvivenza del processo di integrazione europeo, in una qualunque delle forme immaginate, e per evitare un percorso di disgregazione in direzione opposta? La moneta unica è essenziale nel disegno europeo o è necessario prepararsi ad un passo indietro? Soprattutto, cosa fare per rafforzare l’unione monetaria?

Per comprendere la portata delle tre domande conviene partire da una diagnosi, e cioè dai tre indiscussi fallimenti esiziali dell’Unione monetaria, a cui naturalmente si affiancano successi importanti, che tuttavia non compensano i primi. Essi sono il fallimento sostanziale nel processo di convergenza e di eliminazione degli squilibri macroeconomici interni, il fallimento del coordinamento delle politiche macroeconomiche, cioè tra politica monetaria e politica fiscale, il fallimento conseguente della correzione degli squilibri esterni. Il surplus commerciale tedesco non è compatibile con la politica monetaria della BCE e con le richieste di coordinamento macroeconomico con il resto del mondo necessarie ad evitare soluzioni conflittuali. Ma questo surplus è, a sua volta, anche conseguenza, come hanno fatto notare le autorità tedesche, del tentativo di usare lo strumento monetario per sostenere la crescita dell’eurozona senza potere, al tempo stesso, correggerne gli squilibri interni. L’euro implica, infatti, tassi fissi di cambio all’interno dell’eurozona e il tasso di cambio, come ogni altro prezzo, quando non è libero di fluttuare non può rappresentare uno strumento di riequilibrio macroeconomico tra i paesi membri. Ciò implica che è necessario prevedere altri strumenti di riequilibrio per consentire la convergenza delle economie e non la loro divergenza.

I tre fallimenti sono il risultato di una politica economica fondata su una strategia di aggiustamento economico e fiscale che non ha portato a risultati positivi. Dalla crisi del 2008 l’eurozona non cresce e non riesce ad assorbire la disoccupazione che si è creata. Ci hanno raccontato che l’obiettivo della convergenza interna, cioè il raggiustamento tra paesi deboli e paesi forti, si dovesse perseguire mediante la deflazione interna (cioè la riduzione di prezzi e salari) nei primi, e abbiamo ottenuto una deflazione generale contro la quale faticosamente combatte la BCE. Ci hanno raccontato che il consolidamento fiscale doveva essere l’obiettivo fondamentale da perseguire nonostante la recessione, anche per costringere i paesi riluttanti ad accettare la deflazione interna. Abbiamo ottenuto la deflazione ma non il consolidamento fiscale, poiché i debiti pubblici hanno continuato a crescere non solo in Italia (ricordiamo che il fiscal compact doveva servire a porre il rapporto debito/pil in una traiettoria di discesa). 

  1. La crescita del debito pubblico nell’eurozona.

Dal 2007 al 2016 il debito pubblico lordo dell’eurozona è aumentato di oltre 25 punti in percentuale del Pil (dal 65,0 al 92,2 per cento), nonostante che la Germania abbia frenato questa dinamica aggregata. Il debito pubblico francese nello stesso periodo è aumentato di 35 punti percentuali di Pil, quello spagnolo di circa 65 punti, quello portoghese di circa 62 punti, quello italiano di 32 punti.

Cosa è accaduto una volta superata la fase acuta della crisi iniziata nel 2008? Non si è notata una tendenza alla finanza allegra. Negli ultimi cinque anni l’eurozona ha fatto registrare complessivamente sempre avanzi primari di bilancio, e non per merito principale della Germania. L’Italia ha mantenuto i più elevati avanzi primari, fino a tre volte quello aggregato dell’eurozona, e solo la Francia, tra i paesi che hanno visto più crescere il loro debito sovrano, ha registrato disavanzi primari, peraltro contenuti. Se si guarda ai deficit complessivi, tuttavia, cioè al lordo degli interessi sul debito, solo l’Italia tra i grandi paesi indebitati ha mantenuto il proprio deficit al di sotto del limite del tre per cento del Pil, e, secondo i metodi di stima dell’OCSE, da cinque anni è anche in sostanziale pareggio di bilancio se aggiustato per il ciclo. Eppure, val la pena di ricordare che nel 2011 l’allora governo italiano in carica cadde sotto l’imperativo dell’anticipo del pareggio di bilancio al 2013, ed oggi, dopo sei anni, ci si compiace in Italia di mantenere nel 2017 il deficit sotto il 3 per cento. Per quel che riguarda il debito è anche da notare che dal 2008 al 2011, cioè con il pieno impatto della crisi, il debito italiano in rapporto al Pil aumentò di 14 punti percentuali, mentre dal 2011 al 2015, in piena fase di austerity, crebbe di altri 16 punti, superando il 132 per cento.

Un recente studio mostra, peraltro, come la quota di paesi che non rispettano gli obiettivi di bilancio fissati in sede europea fluttua negli ultimi venti anni ed è in diminuzione dopo il 2009 per ciò che riguarda il rispetto del tetto del deficit. Aumenta al contrario costantemente il non rispetto della regola del debito: il 75 per cento dei paesi dell’eurozona non rispetta attualmente il limite del debito pubblico al 60 per cento del Pil.

Oggi la leadership europea non parla più di austerity, e il termine “consolidamento fiscale” è stato sostituito dal più pudico “mantenimento del rigore”. E tecnicamente è vero che non siamo più nell’ambito dell’austerity, giacché la politica fiscale europea è divenuta nel complesso leggermente espansiva. Ma ciò non cambia la situazione perché un lustro di politica di austerity ha provocato un livello di atrofizzazione della capacità produttiva da cui non si esce con una “leggera politica fiscale espansiva”.

Ciò che è mancato in questi anni per limitare il potenziale destabilizzante del debito accumulato in tutta l’Eurozona è, come è noto, la crescita del Pil nominale, schiacciato dall’assenza di inflazione e dalla bassa crescita in termini reali. Tutto ciò rende l’Unione europea debole e impreparata ad affrontare un contesto internazionale che fa prevedere un confronto strategico, economico e commerciale molto più duro che nel passato, di cui saranno protagonisti principalmente Cina e Stati Uniti.   

In realtà è chiaro quel che si dovrebbe fare, ma si dovrebbero cambiare le regole che sovrintendono l’Unione monetaria. Non è facile cambiare le regole e la strada non è quella del non rispetto delle regole, anche se fino ad oggi l’Unione si è arrangiata accettandone sostanzialmente il non rispetto o la loro flessibilità. Ma in tal modo l’Europa è bloccata.

Sappiamo che è necessario un programma massiccio di investimenti pubblici per rilanciare la crescita europea dal lato dell’offerta e dal lato della domanda, ma questa strada è interdetta sotto le regole europee per i paesi che non hanno spazio fiscale, cioè quelli che ne hanno più bisogno, se non nella misura molto limitata consentita dai pochi aggiustamenti ancora possibili tra spesa in conto capitale e spesa corrente dopo anni di compressione di bilancio. La risposta di chi sostiene che lo spazio fiscale si trova tagliando ulteriormente la spesa pubblica corrente non è allo stato attuale una risposta. Sarebbe necessario ricorrere a spesa in deficit per finanziare investimenti pubblici, azione di principio corretta secondo la cosiddetta golden rule, di cui si parla almeno da quando si sono concepite le regole europee di stabilità e crescita, ma mai accettata per sfiducia nell’uso corretto della regola stessa da parte di governi propensi alla spesa.

Tuttavia, al di là delle regole europee, violate abbondantemente fino ad oggi, come si è sopra fatto notare, il vero limite all’ampliamento dei deficit sovrani non sono le regole europee ma la crescita ulteriore che ne deriverebbe del debito. E’ quindi la crisi potenziale dei debiti sovrani che pesa sulle possibilità di manovra dei governi, in particolare di quelli dei paesi più indebitati, le cui difficoltà rischierebbero di assumere carattere sistemico mettendo in pericolo la costruzione complessiva dell’Unione monetaria. Questo è il vero centro del dibattito in Europa, e in particolare con la Germania, e la causa del riaffiorare periodico di posizioni che prospettano la possibilità che alcuni paesi deboli (non solo la Grecia) escano dall’euro.

  1. Come si esce dai debiti sovrani eccessivi.

Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff(entrambi Harvard University), basandosi sull’esperienza storica di “uscite” da elevati debiti da parte di paesi avanzati, trovano che fondamentalmente esse hanno comportato il percorrere qualche combinazione di cinque possibili strade: 1) crescita economica, 2) aggiustamento fiscale-austerità, 3) esplicita (de jure) ristrutturazione o default, 4) inflazione inattesa, 5) una dose continua di repressione finanziaria accompagnata da inflazione.

Abbiamo già sottolineato che la strada dell’austerità non ha funzionato per l’eurozona perché non si è combinata con quella della crescita economica e dell’inflazione. Al contrario, l’aggiustamento fiscale e l’austerità, pur con lo scarso rispetto degli obiettivi fiscali da parte di gran parte dei paesi dell’eurozona, non sono riusciti a produrre il risultato della convergenza macroeconomica attraverso la deflazione interna e hanno annullato la possibile azione di riduzione del debito attribuibile alla prima e alla quarta delle strade ricordate da Reinhart e Rogoff. Quel che ha contribuito a frenare la crescita del debito è stata solo la politica monetaria che ha determinato una certa dose di “repressione finanziaria”, tenendo bassi i tassi di interesse e quindi redistribuendo reddito tra debitori e risparmiatori, cosa non gradita alla Germania e a tutti i risparmiatori europei, ma senza ottenere quel livello di inflazione necessario a produrre effetti di rilievo.

Ciò che teoricamente rimarrebbe da percorrere, secondo la classificazione ricordata, è la strada della ristrutturazione del debito e del default, più o meno esplicito. Ed è questo lo spettro che rende alquanto difficile le trattative per cambiare la conduzione delle politiche di bilancio europee e che alimenta la paura di una nuova forte instabilità finanziaria che aprirebbe la strada a soluzioni traumatiche. Uno spettro che rende anche difficile parlare di uscita dall’euro. D’altra parte è uno spettro che non si può far finta che sia solo una fantasia tedesca, anche se la sostenibilità dell’alto debito italiano non è in discussione, almeno fino quando essa troverà conferma nel sentimento soggettivo degli operatori finanziari oltre che  nelle stime degli organismi internazionali.

E’ infatti l’ammontare dei debiti sovrani il vero problema sotto le regole europee, fin da quando la reazione europea alla crisi del debito sovrano greco nel 2011 chiarì a tutti che la convergenza dei tassi di interesse nell’eurozona fino ad allora non dipendeva dall’improvviso livellamento del rischio paese tra i suoi membri, ma dal fatto che si era dimenticato che i debiti nazionali non sono coperti dall’ombrello europeo. L’incapacità di fronteggiare una crisi oggettivamente di dimensioni limitate fece recuperare la memoria ai mercati e innescò una crisi più profonda mostrando le falle della costruzione dell’euro, poi parzialmente e provvisoriamente tamponate dall’azione della BCE con una interpretazione, a detta di alcuni, forse troppo creativa, anche se necessaria, dei propri obiettivi e limiti di azione. Il debito accumulato nello scorso secolo in Italia, e poi aumentato in gran parte dell’Europa a partire dalla crisi del 2008, è quindi non solo il macigno sulla strada di una seria politica di crescita ma rappresenta anche l’elemento che renderebbe molto complicata anche un’uscita concordata o non concordata dall’euro.

L’alternativa è quella di riattivare la strada della crescita economica associata ad una maggiore inflazione e, realisticamente, anche ad un poco di repressione finanziaria. Ma ciò richiede di allentare il legame causale tra spesa pubblica, seppur per investimenti, deficit e debito.

  1. Il ruolo degli investimenti pubblici

Vi è larga concordanza di opinioni sul fatto che ciò che manca all’appello sono gli investimenti necessari al sostegno della domanda interna all’eurozona ma soprattutto a recuperare competitività sui mercati internazionali e ad assicurare la sostenibilità di lungo periodo, innanzitutto sociale, della crescita.

Il piano Junker, che doveva rappresentare il secondo pilastro, accanto alla politica monetaria del quantitative easing, della politica economica europea non appare una risposta sufficiente fino ad oggi. La politica monetaria, seppur aggressiva, non è stata in grado di sostenere adeguatamente gli investimenti privati. La rapidità e la profondità dell’innovazione tecnologica, e soprattutto la velocità con la quale si diffonde, se da una parte aprono grandi opportunità di investimento e di successo dall’altra sembrano anche rappresentare un elemento che scoraggia gli investimenti privati per l’alto grado di rischio dell’operare in mercati globalizzati.

Da ciò l’opinione che la componente cruciale della crescita che manca all’appello siano gli investimenti pubblici, fortemente diminuiti in tutti i paesi, e quindi il gap in quantità e qualità dello stock di capitale pubblico in settori fondamentali per il rendimento dello stock di capitale privato, soprattutto nei comparti più innovativi in cui si concentrerà lo spazio di crescita futura, dalle infrastrutture ICT alla Green economy. Basta pensare agli investimenti massicci in formazione che sono necessari per quella che, con una terminologia un poco immaginifica ma sintetica, si usa definire “Industria 4.0” e per sviluppare le infrastrutture materiali e immateriali ad essa necessarie. Si tratta di un problema non solo italiano.

  1. Uno stimolo fiscale finanziato con moneta come uscita dal debito

Buona parte dell’Eurozona, e certamente l’Italia, ha bisogno di uno stimolo fiscale di dimensioni molto più ampie di quelle in discussione nella più rosea delle interpretazioni di flessibilità. E’ necessario che il “whatever it takes” venga esteso dalla politica monetaria alla politica fiscale. Lo stimolo fiscale deve tuttavia consistere in corposi programmi di investimento pubblico in deficit. E non si tratta di scavare e riempire buche per sostenere la domanda, ma di colmare una caduta degli investimenti profonda e prolungata che compromette nel presente e nel futuro la produttività e la competitività dell’economia europee. Serve, quindi, un programma di investimenti pubblici, finanziato in deficit perché questo serve anche a rilanciare la domanda interna, dal momento che i governi non possono costringere i privati ad investire, ma possono e devono creare le prospettive perché divenga conveniente farlo.

Naturalmente, tutto ciò implica affrontare la vera questione che in questi anni ha bloccato la politica economica europea: come conciliare il necessario stimolo fiscale con il pericolo, o la quasi certezza, che l’ulteriore crescita dei debiti pubblici crei ulteriore sfiducia nella loro sostenibilità.

L’unica strategia che nelle condizioni descritte sembra possibile, oltre che necessaria, è, quindi, quella di uno stimolo fiscale finanziato attraverso la creazione di moneta. In altri termini, ciò che si propone è la monetizzazione di una parte del deficit pubblico, destinato a finanziare senza creazione di debito aggiuntivo un ampio e generalizzato programma di investimenti pubblici, con il vincolo del mantenimento di un avanzo primario strutturale al netto di tale finanziamento, ottenuto attraverso il controllo della spesa corrente in misura compatibile con un sentiero di riduzione costante del debito.

L’obiettivo è di ridurre il rapporto debito/Pil operando sui due termini del rapporto: stimolare la crescita del Pil reale e determinare al contempo la diminuzione del debito nominale stabilizzando l’avanzo primario, al netto del finanziamento monetario.

Qualche semplice calcolo per l’Italia mostra che con un costo medio del debito contenuto entro il 3,5 per cento (oggi è lievemente minore), un tasso di crescita nominale almeno del 3 per cento e un avanzo primario mantenuto superiore al 2 per cento (oggi è di poco inferiore), si metterebbe il rapporto debito/pil su un sentiero di decrescita stabile seppur ancora lenta. Considerando, tuttavia, che l’avanzo primario italiano aggiustato per il ciclo è stimato dall’Ocse superiore al 3 per cento, si può ipotizzare che la spinta di un programma di investimenti finanziato con moneta potrebbe portare l’avanzo primario italiano, come conseguenza della riduzione dell’output gap, vicino a tale livello senza affossare la crescita. Senza lo stimolo fiscale finanziato con moneta ipotizzato, un costante avanzo primario superiore al 3 per cento sarebbe insostenibile nelle condizioni attuali di output gap.

 Lo stimolo fiscale dovrebbe essere ovviamente temporaneo e garantito uniformemente a tutta l’eurozona, il cui debito pubblico è nel complesso di poco inferiore ai 10 mila miliardi di euro. Il finanziamento con moneta di un programma di investimenti pubblici tra il 2-3 per cento del Pil dell’eurozona costerebbe 200-300 miliardi l’anno, una cifra ben inferiore alla moneta prodotta con il quantitative easing, anche nella versione oggi ridotta di 60 miliardi mensili. La quota di finanziamento di cui beneficerebbe l’Italia in proporzione del Pil sarebbe tra i 30 e i 45 miliardi annui. Nel complesso dell’eurozona, con un tasso di crescita del Pil nominale che potrebbe andare stabilmente ben oltre il 4 per cento l’anno (già siamo intorno al 3 per cento), e un costo medio del debito stabilizzato intorno al 2,5 per cento, tutta l’eurozona entrerebbe in una prospettiva di decrescita del debito stabilizzando le aspettative dei mercati internazionali.

Ci si augura che le obiezioni a questa politica non si riducano all’osservazione che le regole attuali non lo consentono, perché ormai è assodato che le regole attuali, senza un “whatever it takes” che sia applicato contemporaneamente alla politica fiscale oltre che monetaria, conducono alla dissoluzione europea e alimentano solo proposte, di varia natura, di abbandono dell’euro.

D’altra parte, le stesse obiezioni tradizionali ad un’opzione di questo genere appaiono discutibili nell’attuale contesto economico. L’impatto inflazionistico appare un problema secondario nelle condizioni attuali, dal momento che siamo di fronte ad un deficit di domanda e le banche centrali di tutto il mondo hanno inondato i mercati di liquidità, cercando di alzare senza successo l’inflazione e di tenere basso il valore delle rispettive valute. Un rilancio della crescita favorirebbe probabilmente un aumento dell’inflazione, e quindi quello desiderato del Pil nominale. In parte ciò si potrebbe riflettere anche sui tassi di interesse nominali e quindi tradursi in un maggior onere del debito, ma l’effetto potrebbe essere limitato perché il programma ridurrebbe il rischio collegato ai debiti sovrani di tutti i paesi dell’eurozona in un contesto di maggiore crescita e di recupero di competitività rafforzando la sostenibilità del debito. In ogni caso sarebbe positiva una attenuazione del meccanismo di repressione finanziaria che sta oggi alimentando le rivolte “populiste” dei risparmiatori.

 Quanto al rilassamento dei costumi fiscali dei paesi mediterranei che una simile politica incentiverebbe – tipica ossessione tedesca – basta ricordare non solo che in Italia, come già sottolineato, il surplus primario in rapporto al Pil è stato superiore da almeno venti anni a quelli dei maggiori paesi dell’eurozona compreso quello tedesco, ma anche che il programma ipotizzato dovrebbe essere vincolato al mantenimento di un bilancio strutturale in pareggio al netto del finanziamento monetario della spesa per investimenti.

  1. Uno sguardo alla storia per concludere.

L’Italia ha beneficiato di una simulazione storica “reale” della regola relativa al non finanziamento in moneta del deficit pubblico, regola oggi considerata inviolabile ma che al contrario va maneggiata con cura. Il cosiddetto divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981, con il quale si interruppe il finanziamento monetario del deficit pubblico italiano, portò in un decennio al raddoppio del debito pubblico. Naturalmente le cause furono varie, tra le quali principalmente non essere riusciti a cambiare i meccanismi della spesa pubblica fino alla crisi del 1992, quando per la prima volta l’avanzo primario divenne positivo. Tuttavia, ciò testimonia i limiti delle strategie fondate sostanzialmente sull’effetto taumaturgico dei vincoli esterni, idea dura a morire. In realtà, perseguendo l’obiettivo di riduzione dell’inflazione e della stabilizzazione del cambio, senza la correzione preventiva della dinamica della spesa pubblica, si determinò un rapido aumento dei tassi reali sul debito assieme alla progressiva crescita della quota di deficit finanziata con debito, e quindi una sua esplosione. L’indebitamento netto rimase, infatti, costantemente superiore all’11 per cento del Pil fino al 1992, ma gli interessi sul debito passarono dal 5 per cento circa del Pil nel 1981 all’11, 4 per cento nel 1992. Ed è da allora che l’Italia viaggia con una palla di piombo al piede. La crisi del 2008 ha esteso questa situazione a molti paesi dell’eurozona ed è forse il momento di affrontare il problema.

Questo articolo apparirà in un volume collettaneo della Fondazione Economia Tor Vergata dal titolo "Unione Europea.60 anni e un bivio”.

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