di Giulio Tremonti
Caro direttore,abbiamo la Costituzione «più bella del mondo», ma un sistema politico che ne è divenuto l’opposto.
Nel luglio del 1989, anno bicentenario della Rivoluzione francese, fu fatta una previsione: come nel 1789 si costruivano le prime moderne «macchine» politiche, assembleari e parlamentari, così nel 1989, due secoli dopo, queste si sarebbero via via svuotate (Tremonti,Una rivoluzione che svuota i Parlamenti, Corriere della Sera, 19 luglio 1989). Svuotate con la progressiva controrivoluzionaria erosione del potere dello Stato-nazione.
Nel 1989 si era solo agli albori di una «globalizzazione» che poi è venuta, ma portando infine con sé la crisi generale — non solo finanziaria ed economica, ma anche sociale e politica — che marca questo principio di secolo.
Crisi che da un lato ha ancora più indebolito gli Stati, dall’altro lato ha fatto emergere nuovi e vasti nuclei di paura e di bisogno, di incertezza e di sfiducia, nuclei che stanno confluendo in «contenitori» politici di nuovo tipo. Senza contare, sempre prodotti dalla «crisi», gli effetti di radicalizzazione o di dissociazione interni ai partiti tradizionali.
Ciò che oggi è evidente in Italia nella progressiva geopardizzazione dell’elettorato e delle sue rappresentanze. In questo scenario, lo scorso 25 gennaio la Corte Costituzionale ha centrato il punto politico essenziale: «Non ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee… al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare». Ebbene, se oggi c’è una cosa sicura è che a questo obiettivo non si arriva, né percorrendo la via degli artifici né, in alternativa, la via del fatalismo.
Artifici. Una volta per ironia si diceva che, se il sistema politico si inceppava, allora la giusta soluzione era quella di sciogliere il popolo, per eleggerne un altro. Più o meno lo stesso si pensa di poter fare oggi: non sciogliere il popolo, ma sostituirne una parte, con l’artificio di una legge elettorale «maggioritaria».
Il «maggioritario», metafora della modernità positiva, decisiva e progressiva, comunque sia congegnato, puro o misto, è infatti (e non solo in Italia) superato dalla realtà. Poteva andare bene prima, quando i problemi erano più piccoli ed avevamo origine interna; quando c’erano ancora le ideologie; quando l’azione di governo si basava sull’uso sistematico dei «deficit» pubblici. Oggi non è più così. La storia ha preso un corso diverso e più drammatico. Oggi i grandi problemi, soprattutto i problemi che vengono da fuori e si sviluppano su scala globale, non si possono più governare con numeri piccoli di voto popolare effettivo.
Perché è la realtà che, superata l’illusione di una vittoria ottenuta a tavolino, il giorno dopo ti si rivolta contro e lo fa con il carico degli interessi. Così che, se anche vinci le elezioni, non vinci il governo. Fatalismo. Ad un governo che sia capace di funzionare non si arriva tuttavia neppure solo con un rattoppo fatto al margine di «quel che resta» della legge elettorale «vigente» (sic!). Così facendo si andrebbe infatti verso un prossimo sicuro fallimento che, serialmente aggiungendosi ai precedenti, ancora più logorerebbe quel che resta della nostra democrazia.
Come il selvaggio che ricarica la sveglia che porta al collo, ma non ha l’idea del tempo e della sua misura, così troppi sono oggi al lavoro proprio su questa ipotesi. Per lo più lo fanno scambiando i mezzi con i fini od i fini con i mezzi. Alcuni lo fanno per loro tentativo tornaconto. Altri avventuristicamente confidando nel salto nel vuoto. I più fatalisticamente considerando che la maggiore forza in campo è ormai la forza di gravità, con la sua fatale spinta verso il basso.
Prima che sia troppo tardi, prima dell’altrimenti inevitabile collasso, replica in farsa (si spera) della tragedia di Weimar, l’unica e l’ultima speranza è che nel Parlamento e nel Paese si apra una seria discussione sul che fare e che per questa si (ri)leggano le pagine di Maritain. (L’uomo e lo Stato): «… l’incontro può (deve) essere tra uomini di princıpi diversi, anche opposti, ma animati dalla stessa “fede” secolare: il rispetto per la verità, per l’intelligenza, per la dignità umana, per la libertà. Come cemento l’amicizia civile e l’assegnazione di un valore assoluto al bene morale». Così che, per il bene del Paese, tutti se ne tragga ispirazione.
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